CDS "M Kolbe" Patti

Comunione e Liberazione

 


 

Anche in politica l'altro è un bene

Julián Carrón la Repubblica

10/04/2013

 

Caro Direttore,
cercando di vivere la Pasqua nel contesto degli ultimi eventi accaduti nella Chiesa − dalla rinuncia di Benedetto XVI all’irruzione di papa Francesco −, non ho potuto evitare di pensare alla drammatica situazione in cui versa l’Italia per la difficoltà di uscire dalla paralisi che si è venuta a creare.
Si è scritto molto su questo da parte di persone ben più autorevoli di me per le loro competenze in politica. Non ho alcuna soluzione strategica da suggerire. Mi permetto solo di offrire qualche pensiero, nel tentativo di collaborare al bene di una nazione alla quale mi sento ormai legato per tanti motivi.
Mi pare che la situazione di stallo sia il risultato di una percezione dell’avversario politico come un nemico, la cui influenza deve essere neutralizzata o perlomeno ridotta al minimo. Abbiamo nella storia europea del secolo scorso documentazione sufficiente di analoghi tentativi da parte delle differenti ideologie di eliminarsi a vicenda, che hanno portato alle immani sofferenze di intere popolazioni.
Ma l’esito di questi sforzi ha portato a una costatazione palese: è impossibile ridurre a zero l’altro. È stata questa evidenza, insieme al desiderio di pace che nessuno può cancellare dal cuore di ogni uomo, che ha suggerito i primi passi di quel miracolo che si chiama Europa unita. Che cosa permise ai padri dell’Europa di trovare la disponibilità a parlarsi, a costruire qualcosa insieme, perfino dopo la seconda guerra mondiale? La consapevolezza della impossibilità di eliminare l’avversario li rese meno presuntuosi, meno impermeabili al dialogo, coscienti del proprio bisogno; si cominciò a dare spazio alla possibilità di percepire l’altro, nella sua diversità, come una risorsa, un bene.
Ora, dico pensando al presente, se non trova posto in noi l’esperienza elementare che l’altro è un bene, non un ostacolo, per la pienezza del nostro io, nella politica come nei rapporti umani e sociali, sarà difficile uscire dalla situazione in cui ci troviamo.
Riconoscere l’altro è la vera vittoria per ciascuno e per tutti. I primi ad essere chiamati a percorrere questa strada, come è accaduto nel passato, sono proprio i politici cattolici, qualunque sia il partito in cui militano. Ma anche essi, purtroppo, tante volte appaiono più definiti dagli schieramenti partitici che dall’autocoscienza della loro esperienza ecclesiale e dal desiderio del bene comune. Eppure, proprio la loro esperienza di essere «membri gli uni degli altri» (san Paolo) consentirebbe uno sguardo sull’altro come parte della definizione di sé e quindi come un bene.
In tanti questi giorni hanno guardato la Chiesa e si sono sorpresi di come si sia resa disponibile a cambiare per rispondere meglio alle sfide del presente. In primo luogo, abbiamo visto un Papa che, al culmine del suo potere, ha compiuto un gesto assolutamente inedito di libertà − che ha stupito tutti − affinché un altro con più energie potesse guidare la Chiesa. Poi siamo stati testimoni dell’arrivo di Papa Francesco, che dal primo istante ci ha sorpreso con gesti di una semplicità disarmante, capaci di raggiungere il cuore di chiunque.
Negli ultimi anni la Chiesa è stata colpita da non poche vicende, a cominciare dallo scandalo della pedofilia; sembrava allo sbando, eppure anche nell’affrontare queste difficoltà è apparsa la sua diversità affascinante.
In che modo la vita della Chiesa può contribuire a misurarsi con l’attuale situazione italiana? Non credo intervenendo nell’agone politico come una delle tante parti e delle tante opinioni in competizione. Il contributo della Chiesa è molto più radicale. Se la consistenza di coloro che servono questa grande opera che è la politica è riposta solo nella politica, non c’è molto da sperare. In mancanza di un altro punto d’appoggio, si afferreranno per forza alla politica e al potere personale e, nel caso specifico, punteranno sullo scontro come unica possibilità di sopravvivenza. Ma la politica non basta a se stessa. Mai come in questo momento risulta così evidente.
Nella sua povertà di realtà piena di limiti, la Chiesa continua a offrire agli uomini, proprio in questi giorni, l’unico vero contributo, quello per cui essa esiste − e Papa Francesco lo ricorda di continuo −: l’annuncio e l’esperienza di Cristo risorto. È Lui l’unico in grado di rispondere esaurientemente alle attese del cuore dell’uomo, fino al punto di rendere un Papa libero di rinunciare per il bene del suo popolo.
Senza una reale esperienza di positività, in grado di abbracciare tutto e tutti, non è possibile ripartire. Questa è la testimonianza che tutti i cristiani, a cominciare da chi è più impegnato in politica, sono chiamati a dare, insieme a ogni uomo di buona volontà, come contributo per sbloccare la situazione: affermare il valore dell’altro e il bene comune al di sopra di qualsiasi interesse partitico.


Julián Carrón
Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

Milano, 20 marzo 2013

Testo di riferimento: «La dichiarazione esplicita», in All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli,

Milano 2011, pp. 85-97.

Negra sombras

Noi non sappiamo chi era

 

Gloria

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Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón

 

 

Ci siamo dati come lavoro per la Scuola di comunità l’inizio del capitolo settimo de All’origine

della pretesa cristiana, alla luce di quanto è accaduto in questo mese, che ci ha costretti a vedere in

atto alcune delle cose di cui parla il capitolo. Comincio leggendo una domanda che mi è arrivata:

«Ultimamente, in tutti gli interventi sento parlare di contraccolpo in mille modi: per indicare

stupore, reazione, giudizio sulla realtà. Ne abbiamo parlato anche nel gruppetto di Scuola di

comunità, ma non mi sembra che il significato fosse chiarissimo. Cosa intendi dire esattamente con

questa parola?». La volta scorsa avevamo usato questo termine per introdurre quel che don Giussani

chiama «problematicità», cioè che la vita, sfidandoci, ci ridesta problemi. Vorrei far raccontare un

episodio che mi sembra possa aiutare a rispondere a questa domanda.

Ero stato molto provocato dall’ultima Scuola di comunità, quando tu, anticipando il tema della

problematicità della realtà, ci avevi sfidato con queste parole: «Tutto si gioca nel primo

contraccolpo rispetto al reale, rispetto alle elezioni, rispetto al Papa, rispetto alla persona che hai

davanti, rispetto al lavoro, rispetto all’attesa, cioè rispetto alla vita. Se ciascuno di noi non prende

sul serio il dato del reale e se questo non diventa il punto di partenza, noi siamo già “moderni”,

siamo già, in fondo, ideologici». E concludevi dicendo: occorre «passare dal contraccolpo iniziale

all’impegno che questo implica». Il fatto è il seguente. Mi chiama un universitario del movimento e

mi chiede se possiamo incontrare un ragazzo che ha appena conosciuto. Mi incontro con loro, e

rimango colpito perché quel ragazzo è un rumeno di ventitré anni. Allora chiedo all’universitario:

«Ma dove l’hai incontrato?». E lui: «In metropolitana. Aveva un cartello con scritto: “Cerco

lavoro”. Quando l’ho visto, io sono passato oltre. Soltanto che più camminavo, più nasceva un

disagio, più nasceva un’urgenza dentro. Ho fatto dieci passi e alla fine mi sono fermato e sono

dovuto tornare indietro». E io che cosa ho visto in questo fatto? Che veramente tutto si gioca in

questo impatto iniziale, in questo contraccolpo. È chiaro che questo contraccolpo ti sfida (non è

l’inno a fermarsi con tutte le persone!), perché non sai dove ti porta. E ho capito che questa è

proprio la dinamica della realtà tutta, come tu ci avevi già ricordato nel libretto degli Esercizi del

Clu. Cosa fa il Mistero attraverso la realtà? Ridesta tutto il nostro desiderio. E ridestandolo ci

mette sempre più nelle condizioni di verificare Chi lo compie veramente.

Mi sembra che questo racconto sia utile per cogliere i fattori del reale. In tante occasioni non

possiamo non sentirci provocati dalla realtà. Uno vede una cosa che lo provoca; può lasciarla

perdere, ma questo succede come se niente fosse: uno percepisce un disagio, sorprende dentro di sé

un’urgenza a cui può rispondere o non rispondere, ma non è uguale a zero. Significa che il

contraccolpo non è una questione soltanto sentimentale, ma è l’inizio (l’inizio!) che introduce nella

vita quel che don Giussani ci ha detto – lo abbiamo citato all’ultima Scuola di comunità – spiegando

che cosa è la vita: «la vita è una trama di avvenimenti e di incontri che provocano la coscienza

producendovi in varia misura problemi. Il problema è l’espressione dinamica di una reazione di

fronte agli incontri provocanti. E il significato della vita – o delle cose pertinenti e importanti nella

vita – […] è un traguardo possibile solo per chi sia impegnato con la problematica totale della vita

stessa». Vedete? Giussani non dice che il traguardo è possibile per chi riceve il contraccolpo, quello

lo riceviamo tutti, perché il contraccolpo non ci chiede il permesso, succede; ciò che decidiamo noi

è se impegnarci con quel contraccolpo, con quell’inizio, con quell’attrattiva, con quello stupore (per

esempio, l’incontro con uno che cerca lavoro, come abbiamo ascoltato), un impegno che ci consente

di scoprire il significato del reale, della vita. «Impegnato» e «totale»: sono due aggettivi decisivi.

«Impegnato con la problematica totale della vita stessa». Ma attenzione, perché noi tante volte

riduciamo questo impegno a una sorta di sforzo, a una sorta di volontarismo; c’è dentro,

evidentemente, come componente di questo impegno un coinvolgimento nostro. Ma don Giussani ci

aiuta a capire qual è la natura di questo impegno, che non è un impegno moralistico: «L’insorgere

del problema implica la nascita di un interesse, destando una curiosità intellettuale». Noi, invece,

riduciamo la reazione davanti al reale a un problema moralistico (impegnarmi o non impegnarmi).

In realtà, si tratta di seguire una curiosità intellettuale. Non è un problema moralistico, è un

problema conoscitivo. Pensate ai vostri figli quando cercano di capire come funziona un artefatto:

sono entusiasti e curiosi di sapere. Non è che non facciano uno sforzo, ma questo sforzo non prende

il sopravvento; quello che domina è la curiosità, tutta la curiosità (la quale sostiene perfino il loro

sforzo, tanto che nemmeno si rendono conto di sforzarsi); se non è così, è come se tutto diventasse

pesante. Lo sappiamo: quando nel lavoro o nello studio la curiosità ci prende, non è che non ci

impegniamo, ci impegniamo di più! La curiosità e il desiderio di sapere, di scoprire il significato, di

risolvere l’enigma, di capire come funziona il giocattolo, prende il sopravvento sulla pesantezza

dello sforzo. Ma questa è una decisione che dipende da noi: seguire questa curiosità oppure lasciar

perdere. Per questo l’inizio – l’inizio – della disarticolazione, cioè del dualismo, prendere una strada

o prenderne un’altra, è proprio qui: «L’origine di [questo] affievolimento di una mentalità organica

[cioè di un atteggiamento totale di fronte al reale] […] pesca in una possibilità permanente

dell’animo umano, in una possibilità triste di mancanza di impegno autentico [di nuovo, per non

ridurlo a moralismo], di interesse e di curiosità al reale totale». Il contraccolpo è quell’inizio che ci

desta l’interesse, che ci desta la curiosità; noi possiamo assecondarlo o meno. Per questo non si può

opporre il contraccolpo iniziale al lavoro. L’abbiamo visto in questi giorni in modo palese di fronte

a un fatto che tutti abbiamo vissuto. Basta che ciascuno si fermi a pensare che cosa ha suscitato in

lui la notizia della fumata bianca e che cosa è successo dalle sette alle otto di mercoledì, in quale

atteggiamento eravamo: pieni di questa curiosità. Qualcuno se ne è andato via perché il nuovo

pontefice tardava ad affacciarsi? No, eravamo tutti sostenuti nell’impegno con la curiosità che

avevamo. Obiezione: ma questo impegno è un’aggiunta al contraccolpo? No! Non è un’aggiunta al

contraccolpo, è la conseguenza normale del contraccolpo. Uno avrebbe dovuto fare più fatica per

staccarsi dall’attesa che aveva suscitato la fumata bianca che per rimanere davanti al televisore ad

aspettare. Ancora non conoscevamo l’identità del nuovo Papa, ma questo non era la cosa decisiva,

perché tutto era già lì, nell’Habemus Papam. Avevamo curiosità perché tutto era già nell’inizio, nel

fatto, occorreva soltanto aspettare gli sviluppi. Ed è bastato lasciarci provocare, è bastato essere

leali con quel contraccolpo. Nessuno ha pensato allo sforzo, tutti siamo stati impegnati. Avete

sentito qualcuno che si sia lamentato di quanto tempo stava passando? Solamente guardando quel

che succedeva nella piazza, abbiamo avuto un esempio palese di che cosa vuol dire il contraccolpo

e di come assecondare questo contraccolpo non è un’aggiunta per i moralisti, non è un’aggiunta per

la gente brava che ha capacità ed energia eroiche. No, nessuno si è sentito eroe quella sera per

essere rimasto ad aspettare per un’ora, semplicemente era la cosa più normale che si potesse fare di

fronte all’imponenza del fatto. Ecco, quando ci rendiamo conto di questo, cominciamo a

comprendere che cosa ci dice Giussani quando parla di impegno con la realtà: se noi molliamo la

presa, allora il significato di quel che è successo non si svela. Per questo opporre il contraccolpo a

questa curiosità e a questo impegno con la curiosità è soltanto un artificio, perché tutti abbiamo

avuto l’esperienza indimenticabile di quel momento. Per questo uno mi ha scritto: «Sono rimasto

colpito dall’immediatezza con cui si è presentato papa Francesco. Questo avvenimento però mi ha

riaperto una domanda su cui ti chiedo un aiuto: come sta insieme la semplicità della fede

testimoniata dal nuovo Pontefice e il lavoro e il cammino che continuamente ci richiami?».

L’abbiamo appena visto: soltanto per la semplicità di ciò che accade abbiamo bisogno di cedere e di

assecondare la curiosità iniziale, come dice la Scuola di comunità. E quanto più uno condivide la

vita, condivide i gesti, tanto più raggiunge una certezza di conoscenza dell’altro, della persona che

ha davanti. Tutti eravamo protesi a sapere, alle notizie che arrivavano. Perché? Per la curiosità

incontenibile che avevamo. Se uno se ne fosse andato e non avesse sentito parlare per la prima volta

papa Francesco, se non avesse visto i suoi gesti, se non avesse cominciato quella condivisione di cui

parla la Scuola di comunità, non avrebbe potuto raggiungere una certezza di conoscenza come

quella che adesso abbiamo. È quello che dice oggi la Scuola di comunità: occorre una vera

attenzione. Una vera attenzione: «Quanto più allora uno condivide la vita di una persona [e per

questo occorre darsi tutto il tempo necessario] tanto più è capace di certezza morale a suo riguardo,

perché la congerie di indizi si moltiplica». Perciò non si può vedere o introdurre una

contrapposizione tra il primo inizio e la continuazione, che è semplicemente una coerenza con la

posizione iniziale. La questione è che, tante volte, un istante dopo noi decadiamo e allora non

manteniamo la posizione originale, per ragioni varie. La questione è che una posizione è vera se

mantiene l’atteggiamento iniziale. Perciò prosegue il testo: «Cristo finalmente si presenta come Dio

[…] soltanto quando le coscienze attorno a Lui avevano già assunto posizioni decise nei suoi

confronti». A proposito di questo mi scrive un’altra persona: «Quando nel capitolo settimo ho letto

la frase: “Dio, infatti, tende a valorizzare la situazione in cui la nostra libertà si è precedentemente

messa. Il modo con cui Dio ci tratta asseconda una decisione già presa della nostra libertà”, mi sono

bloccato per due giorni. Mi sembra una frase ingiusta e cattiva perché non dà scampo. E mi veniva

in mente il giovane ricco che era andato da Gesù con una sua idea di conversione e Gesù gliene

aveva proposta una diversa che lui non ha accettato e se ne è andato via triste. Ha avuto la sua

occasione e l’ha persa. Avevo capito così: uno sbaglia ed è finito. Poi ho pensato alla mia

esperienza dove non è così, e che il verbo “tratta” è al presente ed è continuativo, non una volta per

tutte. La nostra libertà è in rapporto a quel che succede in quel momento, non a quello che è stato

cinquant’anni fa. Un esempio: ho organizzato tutto per recarmi all’ultima udienza di Benedetto XVI

a Roma. Per me la questione era finita lì, come fossi andato e tornato, come se non aspettassi niente.

Questa partita, invece, si gioca continuamente di fronte alle cose che il Signore suscita. Ogni istante

si gioca quel rapporto tra Dio che fa accadere delle cose e tu che devi rispondere. E pensare che la

nostra compagnia dovrebbe essere la condizione dove la nostra libertà viene educata ad aprirsi e

non a chiudersi perché ci sfida continuamente». È proprio così. Noi tante volte pensiamo che

l’assecondare da parte di Dio una decisione già presa della nostra libertà, come dice, sia una

condanna: hai avuto l’occasione e l’hai persa. No. Perché anche se l’hai persa, domani mattina

davanti a una bella giornata puoi nuovamente dire «sì» o «no», davanti alla pioggia puoi dire «sì» o

“no”; davanti alla bellezza di un gesto gratuito o a uno sguardo pieno di tenerezza di una persona

amica puoi dire «sì» o «no». Nessuna nostra chiusura può impedire questo, nessuna nostra

posizione può impedire che succedano certe cose e che noi lo sperimentiamo. Anche se eravamo

distratti quando abbiamo sentito annunciare: «Fumata bianca!», nessuno ha potuto evitare, qualsiasi

fosse la situazione in cui si trovava, di alzare la testa per un istante. Nessuno può impedirlo, perché

non è nelle nostre mani decidere che cosa succede; per questo si riapre la partita costantemente.

Quindi non è che noi siamo già condannati per il fatto di avere sbagliato; no, si riapre sempre la

questione, altrimenti il dialogo del Mistero con noi si interromperebbe. Non si interrompe mai

perché costantemente, come abbiamo detto prima, la vita è questa trama di avvenimenti che ci

provocano, la vita è questo dialogo costante del Mistero che attraverso le cose che accadono ci

provoca, ci chiama; sono tutte, come abbiamo detto, per la nostra maturazione. Quindi Lui continua

a chiamare, continua a bussare alla nostra porta, e tutta la chiusura di prima non produce

necessariamente che io sia chiuso anche adesso. Io devo ridecidere. Chi, per esempio, quando è

veramente arrabbiato con la vita e vede una bellissima giornata non è sconvolto di nuovo? Dovete

ridecidere. O davanti a un gesto gratuito, uno potrà essere arrabbiato quanto volete, ma non può

evitare il contraccolpo della sua bellezza. Ciascuno di noi lo sa benissimo, deve ridecidere ogni

volta, perché questa è l’affermazione sostanziale della concezione dell’io che stiamo difendendo

ogni volta che parliamo: altrimenti saremmo incastrati, definiti soltanto dai fattori antecedenti,

qualsiasi fossero, censurando che c’è un io costantemente sfidato. Per questo ogni volta – e questa è

la drammaticità – dobbiamo decidere se assecondare o negare e rifiutare. E per questo, dice la

lettera ai Romani, siamo colpevoli non una sola volta, perché dobbiamo ridecidere in continuazione

di rifiutare un’iniziativa dopo l’altra del Mistero. Per questo la partita è sempre aperta fino

all’ultimo istante, come vediamo nell’episodio del buon ladrone: può avere rifiutato per secoli e

all’ultimo aprirsi. È la libertà, è l’io. Fa parte della concezione dell’io questa possibilità costante di

aprirsi. Per questo dice ancora il capitolo settimo: «Quando la libertà si dispone in atteggiamento di

chiusura [perché lo decide la libertà!], tutto quanto accade la favorisce a chiudersi maggiormente».

È impressionante vederlo accadere drammaticamente nella vita. Per questo Cristo dice che a chi ha

sarà ancora dato, perché si trova nella disposizione di ricevere costantemente, mentre a chi si chiude

sarà tolto perfino quel che pensava di avere. E non perché il Mistero sia indisponibile o arrabbiato

con noi o ce la voglia far pagare… No, ma perché costantemente dobbiamo ridecidere, la questione

è sempre aperta.

È tutta sul tema della libertà la domanda che volevo farti, perché ho lavorato tantissimo

sull’affermazione che la libertà è una cosa molto discreta. Questa cosa mi aveva fatto arrabbiare,

perché avevo avuto una discussione al lavoro con un collega: succedevano delle cose e io andavo

a dirgliele. Alla fine ci siamo irrigiditi sulle nostre posizioni, e lui è arrivato a dare questo giudizio:

«Tu schiacci la mia libertà, non rispetti la mia libertà». Allora dentro di me continuavo a pensare a

questa frase, che la libertà è discreta: probabilmente è questa cosa qua, quindi io schiaccio… Poi

un altro mi diceva: «No, non devi dirmi queste cose, perché non sono nella posizione giusta, devi

rispettare la mia libertà». Però questa libertà discreta in fondo mi sembrava un po’ una

mortificazione di me ed ero andata a riprendermi tutto il capitolo sulla libertà di Si può vivere

così?. E lì diceva che è una decisione, che i fatti ci sono e tu devi decidere ogni istante se cedere o

no, come dice qui, a far entrare il Mistero.

Eh, sì.

Perché, allora, conclude dicendo che la libertà non si gioca anzitutto di fronte a grandi scelte? Mi

sembra invece la scelta più grande se cedere in ogni istante a Lui.

Perché davanti alle scelte grandi, come dici, quello che viene fuori è l’atteggiamento che

assumiamo di fronte alle scelte piccole, alle scelte normali. Per questo mi avete sentito citare

parecchie volte il passaggio del Vangelo che tanto mi piace: «A chi paragonerò questa generazione?

Assomigliano a questi bambini nella piazza che hanno deciso di non lasciarsi colpire. Abbiamo

suonato il flauto e non avete ballato. Abbiamo cantato una canzone triste e non avete pianto». Senza

dare nessuna spiegazione, è questo che mi colpisce, Gesù dice letteralmente, con questo esempio,

quello che dice Giussani. «Poi è venuto Giovanni Battista e voi avete detto che era un indemoniato

per la vita che faceva, per il modo di vestire strano, lo avete liquidato come problema, come

provocazione. È venuto il Figlio dell’uomo, cioè Io, che è il contrario, che vive una vita normale:

mangia, beve, lo invitano a pranzo e accetta. E dite: “Mangione e beone, amico dei pubblicani e dei

peccatori”». Il suono del flauto e il Figlio dell’uomo: l’atteggiamento non è diverso, perché è un

atteggiamento di fronte al reale. E questo dice come il Mistero ci ha fatto. Siccome noi siamo fatti

così bisognosi, non sappiamo da dove può venire la risposta a quello di cui abbiamo bisogno. Non

sapevate il volto della persona amata, non sapevate qual era il volto con cui il Mistero aveva deciso

di salvarci; Giovanni e Andrea non lo sapevano in anticipo; nessuno sapeva. L’unica possibilità per

cogliere la modalità con cui il Mistero ci raggiunge è questo atteggiamento aperto di fronte al reale.

Per questo la vera decisione è rispetto al reale, a qualsiasi modalità con cui il reale ci colpisce. Non

è che abbiamo un atteggiamento quando partecipiamo a questo gesto e un altro davanti al sole o alle

montagne. È lo stesso, tanto è vero che quando siamo incastrati ci arrabbiamo allo stesso modo con

il testimone e con le montagne; con il marito a cui vogliamo bene e con la pioggia perché ci

disturba. L’atteggiamento è lo stesso perché è una posizione davanti al reale.

Tornando sulla questione della libertà, che questa volta mi ha colpito come tema sotteso a tutto il

capitolo, il groppo alla gola e al cuore si ripresenta sempre. Ma se il Mistero asseconda sempre

l’opzione della libertà originale del nostro cuore, e se tutto si spalanca perché originariamente

aperto, e tutto invece si oscura per chi, come primo impeto, ha la chiusura, è già tutto scritto?

Nella mia vita vedo che la libertà non è una volta per sempre, ma è di ogni giorno, quasi di ogni

istante, se la coscienza di me mi è usuale. Ma se la posizione primitiva è quasi nativamente rivolta

su me stesso e non al Mistero, può la ragione, che interviene subito dopo, convertirla? Ha la

ragione la forza necessaria nel tempo a convertire questa scelta originale della libertà, oppure è

pura grazia? È a questo livello che finalmente il Mistero mi attende per farmi corrispondere in

verità al Suo amore che mi fa? E se invece fosse pura grazia, potrei mai amarLo veramente, in

libertà? A me capita proprio qui di fare esperienza del mio “sì”, e da qui nasce l’impeto che

vorrebbe poi investire ogni azione. Ma questo ripresentarsi continuo del mio istintivo egoismo mi

lavora ai fianchi, risuggerendomi quasi quotidianamente il dubbio che in fondo l’interpretazione

vera di quello che dice Giussani sia proprio che tutto è già scritto in quella scaturigine di istintivo

egoismo, tanto sembrerebbe dominare. È una lotta quotidiana, supplicando la grazia e la

compagnia del Mistero, che usa i miei amici per rimettermi di fronte a Lui dentro questa quotidiana

vertiginosa scelta della libertà. Ma quanta invidia della chiarezza del “sì” di Maria rimostratomi

oggi nel “sì” di tanti testimoni! Quale profonda nostalgia di un rapporto con il Mistero così

permeato nella coscienza di sé, così reale e così semplice come questi testimoni. Nell’ultima

confessione mi è stato detto: «Resisti, lotta, vivi, ridicendo sempre a Lui: “Mi basta la Tua

grazia”», e, ben felice, abbraccio questa indicazione. Ma è giusto domandare un passo più

profondo della libertà che porti alla pace del figliol prodigo ai piedi del padre? La scelta della

libertà, dono inimmaginabile da parte nostra per il rapporto con il Mistero, come può arrivare a

essere habitus della coscienza di noi? È una pretesa? Ma se è una pretesa, allora perché questo

ingolosirci, questo assetarci con esempi tanto evidenti?

Dipende da come si concepisce la parola habitus, che potremmo tradurre come familiarità rispetto a

un certo atteggiamento. È un desiderio umanissimo, che tutti abbiamo: che diventi sempre più

familiare questa libertà. Ma la questione è che tante volte noi pensiamo che avere questa familiarità

significhi assenza di libertà, assenza di decisione costante. E questo fraintendimento, secondo me, è

decisivo perché, come abbiamo detto in qualche altra occasione, ti piacerebbe che questa familiarità

fosse così meccanicamente abituale da esonerarti dal dire ai tuoi figli: «Ti voglio bene»? No,

evidentemente. Perché dire: «Ti voglio bene», sarà sempre qualcosa di assolutamente nuovo,

assolutamente unico, che non è frutto di alcun antecedente, di alcun meccanismo. Altrimenti non

sarebbe più tuo in questo momento, come dicevi prima. E questo scaturisce adesso, dalla tua libertà

rispetto all’altro o rispetto a Cristo. Il «sì» della Madonna, come dici, scaturisce costantemente da

questo. È evidente che possiamo educarci a che questo diventi sempre più familiare, ma senza che

questo implichi pensare che questo “abito” coincida col cancellare la libertà. Noi, infatti, vogliamo

che la nostra adesione diventi più stabile, e non che si cancelli! Possiamo dire sinteticamente che

essa diventa più stabile non annullando la libertà, ma esaltando la libertà. Quando la Madonna dice

di sì non è perché riduce la sua libertà, ma perché la esalta; non è perché la cancella sostituendola

con un’abitudine, ma la valorizza sempre di più. Uno è più gioioso di rispondere, di dire alla

persona a cui vuole bene quanto le vuole bene; è una esaltazione della libertà, non è un venir meno

della libertà per evitare di sbagliare. È una concezione della mia libertà, secondo la quale la mia

libertà si compie in questo «sì». Per questo don Giussani ci ha sempre detto che il «sì» non è un

problema di coraggio o di energia, bensì di stupore, di lasciarci invadere da questa assoluta

tenerezza del Mistero: «Ti ho amato di un amore eterno e ho avuto pietà del tuo niente». È da questa

consapevolezza che sorge sempre come gratitudine il «sì», come il «sì» di Pietro davanti allo

sguardo pieno di misericordia di Cristo, come ci ricordava papa Francesco in questi giorni: un «sì»

pieno di tutta la consapevolezza della libertà.

In ditta da me siamo un gruppetto di cristiani di diversa provenienza ecclesiale e ci ritroviamo tutti

i venerdì per un momento di aiuto, di giudizio sulla nostra presenza cristiana. In occasione delle

elezioni è venuto fuori che, naturalmente, la gente aveva percezioni completamente diverse della

situazione, e quindi anche orientamenti politici diversi. Questo per me è sempre stato un po’un

problema. Ma questa volta c’è stata una novità: come ci siamo aiutati a vivere quest’anno le

elezioni per me è stato una fonte di educazione veramente grandiosa. A un certo punto, i nostri

colleghi laicisti ci hanno obiettato: «Siete tutti cristiani, però alla fine siete divisi». Senza fare

ragionamenti particolari ho detto: «Se pensate che per il fatto che abbiamo la libertà di

confrontarci tra noi su questo, noi siamo divisi, voi perdete l’unica cosa che ci tiene veramente

insieme, che è Cristo e la potenza dello Spirito Santo. E se continuate a leggere quel che succede

dentro la Chiesa a prescindere da questo, voi perdete fondamentalmente i criteri corretti per

giudicare la nostra presenza». Quando ho visto la faccia che ha fatto un collega che appartiene a

un altro movimento – non si era mai sentito dire una cosa del genere –, ho riscoperto un’unità con

lui grandissima, un gusto completamente nuovo di riconoscere che questa unità c’è e che Cristo la

rinnovava continuamente. Io non so dire come mi sia venuta fuori questa cosa, però posso dire che

se il movimento non mi avesse dato questo sprone nel giudizio sulla situazione politica, a me mai

sarebbe venuto in mente. Posso dire che l’esito è un gusto grandissimo che ti convince del fatto che

“rischiare” Cristo nelle cose è sempre più convincente, sempre più attraente; e la volta successiva

l’impeto nasce in maniera ancora più naturale, ancora più semplice, se vogliamo. La libertà è

come educata di volta in volta rischiandola e giocandola.

Grazie.

Vorrei esprimerti tutta la gratitudine di cui sono capace per quanto in questi mesi sta maturando in

me grazie a un costante lavoro personale su tutto quanto ci stai indicando attraverso scritti,

articoli, interviste. Dopo l’ultimo ritrovo del mio gruppo di Fraternità ho sentito l’esigenza di

confrontarmi con un po’ di amici su alcune questioni. Spesso, infatti, tornavo a casa con un senso

di insoddisfazione e talvolta di fastidio, di cui parlavo solo con mio marito, ma che in sostanza

lasciavo passasse senza fare granché. L’impressione è che spesso ci viene indicato di fare un

lavoro su un testo che poco ha poi a che fare con gli interventi che vengono fatti. Mi spiego: non

mettevo in discussione il fatto che le cose indicate venissero lette, ma che nel raccontare le

esperienze non si partisse realmente da lì. Gli stessi interventi avrebbero potuto essere fatti anche

se non si fosse letto il testo. Avverto quindi in molti, me compresa, la difficoltà di un paragone fra

l’esperienza e il testo, come invece da mesi ci chiedi di fare e che il don Gius ha sempre indicato

come la strada da percorrere; ho ritrovato un testo su Litterae Communionis del 1992 dove diceva:

«Come la Scuola di comunità diventa un punto di paragone? Deve essere innanzitutto letta,

chiarendo insieme il significato delle parole. Non una interpretazione, ma la sequela letterale. […]

In secondo luogo, occorre dare spazio alla esemplificazione di un paragone tra ciò che si vive e

quello che si è letto. Bisogna chiedersi come quello che si è letto e cercato letteralmente di capire

giudica la vita». Quindi dopo l’ultimo raduno, invece di tenere per me queste considerazioni, le ho

scritte ad alcuni chiedendo un giudizio ed eventualmente una correzione. Sono rimasta veramente

colpita da quanto la mia mail ha generato: qualcuno ha condiviso le mie parole, qualcuno ha

sottolineato la necessità e il desiderio di aiutarsi maggiormente in un giudizio per un lavoro e

un’amicizia ancora maggiori, qualcuno ha anche sottolineato il rischio di non diventare

presuntuosamente giudicante. Comunque, la cosa interessante, di cui forse per la prima volta ho

fatto veramente esperienza, è stato vedere come, se si va a fondo di un desiderio che nasce da una

mancanza, da un senso di vuoto – che per me è una compagnia costante da quando ho l’uso della

ragione –, questo muove e, muovendo, fa nascere delle cose. Quindi con alcuni ci siamo visti a

cena, con altri sentiti. Con tre amici, per altro di lunghissima data (ci conosciamo da quando siamo

ragazzini), è nata l’esigenza di aiutarsi trovando dei momenti in cui concretamente leggere insieme

quello che di volta in volta viene indicato. Un’ultima cosa. Un’altra esperienza che ho fatto, grazie

soprattutto al lavoro da te proposto riguardo alle elezioni, è stata innanzitutto quella di essermi

sentita valorizzata totalmente come persona, e come persona pensante, e non di avere delle

indicazioni preconfezionate circa il voto. Dopo un primo momento di smarrimento, ciò mi ha

costretto a verificare personalmente lo scenario, così ho semplicemente prestato più attenzione alla

lettura dei giornali, ho letto i programmi dei partiti, ho parlato con amici e colleghi, e ho maturato

una maggiore consapevolezza, poi, sulla decisione di chi votare. Insomma, ho cercato di fare quel

percorso che ci suggerivi; e devo riconoscere che è stato molto interessante, mi ha costretto a usare

la ragione secondo quel metodo sul quale tanto si insiste e che poi scopro essere valido ogni giorno

in ogni circostanza (perché ogni giorno siamo chiamati a fare delle scelte, piccole o grandi che

siano). In conclusione, non è che sia cambiato qualcosa nella mia vita di tutti i giorni: vado a

lavorare, porto i bambini a scuola, li vado a prendere, li faccio studiare. Ma sta cambiando

totalmente il modo di vivere tutte le circostanze. E questo fa rinascere, per esempio, rapporti e

amicizie di sempre, rinsalda ogni giorno il rapporto con mio marito, con una profondità che ho

sempre desiderato, ma per la quale in realtà stavo ad aspettare la mossa altrui invece che

muovermi io.

Mi sembra significativo come hai concluso, e lo utilizzo per concludere anche io: «Non è che sia

cambiato qualcosa nella mia vita di tutti i giorni […]. Ma sta cambiando totalmente il modo di

vivere tutte le circostanze». Questa è la verifica della fede: uno vede che, facendo una strada,

impara a vivere; uno si rende conto che vivere la vita così è più ragionevole; uno fa l’esperienza

reale di quel che ci siamo detti in questi ultimi tempi, cioè percepisce la fede come pertinente alle

esigenze della vita. Quando noi prendiamo sul serio la proposta che ci facciamo, costantemente

cresce in noi una modalità di stare nel reale molto più vera, molto più intensa, molto più adeguata.

Hai detto che stanno rinascendo rapporti e amicizie di sempre – tutto diventa nuovo! –, con una

profondità che hai sempre desiderato e «per la quale in realtà stavo ad aspettare la mossa altrui

invece che muovermi io». La promessa che fa Gesù, quel «centuplo donato da Cristo a chi lo

accoglie nella propria esistenza», come ha detto papa Francesco nell’udienza a tutti i cardinali due

giorni dopo la sua elezione, è questo: sperimentare che vivendo la fede si moltiplica tutto quel che si

tocca, tutto quel che si vive, non perché cambiano esteriormente le cose (le sfide sono le sfide di

sempre, la quotidianità è la quotidianità di sempre), ma perché – diventando ogni circostanza

educativa, accettando la problematicità della realtà, seguendo con curiosità ciò che accade – si

genera un soggetto diverso, un io diverso. E lo si vede nella modalità con cui uno sta nel reale. È

questo, questo cambiamento, questa diversità che sorprendiamo in noi, il contributo che possiamo

dare agli altri testimoniando che cos’è la fede nel quotidiano, qual è la sua pertinenza alle esigenze

del vivere.

Ad aprile ci sono gli Esercizi della Fraternità per cui la prossima Scuola di comunità in

collegamento si terrà mercoledì 29 maggio alle ore 21.30. Riprenderemo insieme la prima parte

degli Esercizi della Fraternità.

Durante la Settimana Santa la Chiesa ci propone dei gesti per mettere davanti ai nostri occhi quello

che Gesù ha vissuto. Mi sembra che il resto del capitolo settimo c’entri abbastanza con quello che

stiamo per celebrare. La lotta che si scatena davanti alla pretesa di Gesù, quanto più emerge, viene a

galla la Sua pretesa, non accade soltanto agli altri, ma anche in noi e porta costantemente a renderci

consapevoli di che cosa è la passione di Cristo per i nostri peccati e per il nostro rifiuto, della

possibilità che Lui ha aperto con la donazione della Sua vita e con la Sua resurrezione. Per questo,

continuare a lavorare su questo capitolo avendo negli occhi quello che celebreremo la Settimana

Santa, ci mostra che non è qualcosa del passato, che possiamo capire, entrare nel Mistero, proprio

vedendo il dramma in cui viviamo oggi, il dramma che ha portato Gesù a dare la vita per noi. E

quindi è con gratitudine che vogliamo celebrarli, questi giorni, con tutto noi stessi, per ringraziare

Cristo della Sua fedeltà e per domandarGli di vincere tutta la nostra testardaggine.

Preghiamo per il nuovo papa Francesco:

Veni Sancte Spiritus

 

Buona Pasqua
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JULIÁN CARRÓN

14/03/2013 - Il comunicato stampa con le parole del presidente della

Fraternità di Comunione e Liberazione, dopo la notizia dell’elezione del

nuovo Pontefice Francesco
 

Nella gioia incontenibile di avere una nuova guida per il nostro popolo di credenti, sono colpito da come sia riuscito a comunicarci, fin dalle prime mosse, con gesti semplici, comprensibili per chiunque, dove fissa il suo sguardo. Con la scelta del nome, Francesco, ci indica che non ha altra ricchezza che Cristo. Non si affida a nessun’altra modalità di comunicarlo se non alla nuda e semplice testimonianza di Cristo.

Papa Francesco ha espresso con una richiesta disarmante la coscienza che questa testimonianza è pura grazia che deve essere mendicata: «Vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica». Nella preghiera del Papa insieme alla moltitudine di piazza San Pietro ha preso forma davanti agli occhi del mondo il miracolo di quella vita che è la Chiesa, il cui cuore è Cristo stesso.

Mi colpisce la sintonia profonda, fondata nella fede in Gesù Cristo, tra il realismo di Benedetto XVI, che con il suo gesto ha ricordato al mondo che la Chiesa è di Cristo, e l’umile realismo di papa Francesco, che da subito ha espresso la coscienza del suo ministero in quanto Vescovo in comunione e in cammino con il popolo della Chiesa di Roma, «che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese», secondo la felice espressione del grande sant’Ignazio di Antiochia.

Commossi dall’invito a incominciare il cammino insieme, Vescovo e popolo, domandiamo alla Madonna per ciascuno di noi l’abbandono a Cristo che ci testimonia Francesco in questo momento.

Grati allo Spirito che ha dato una guida alla sua Chiesa, incominciamo dunque il cammino desiderosi di seguire e di servire il Papa con tutto noi stessi, secondo l’insegnamento che abbiamo ricevuto da don Giussani: «Il volto di quell’uomo [Cristo] è oggi l’insieme dei credenti, che ne sono il segno nel mondo, o - come dice san Paolo - ne sono il Corpo, Corpo misterioso, chiamato anche “popolo di Dio”, guidato come garanzia da una persona viva, il Vescovo di Roma». 

L’ufficio stampa di CL

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«Una vita che sgorga dalla presenza di Cristo»

di Alessandro Banfi

11/03/2013 - Dal gesto di Benedetto XVI all'attesa per il nuovo Pontefice. La guida di CL, in un'intervista di Alessandro Banfi, ai microfoni di Tgcom24, spiega che cosa i cristiani possono ancora scoprire in quello che sta accadendo

Buongiorno a don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. Grazie di essere con noi.
Grazie. È un piacere.

Lei in un articolo su la Repubblica ha dato un po’ il senso del gesto [di Benedetto XVI] parlando di un gesto di libertà, questa è stata la parola chiave del suo commento. Ce la può spiegare?
Il senso mi sembra molto semplice: una cosa così, un gesto di questo calibro, non si può spiegare soltanto per certi fattori che sembrano all’origine di un gesto così: il coraggio, le difficoltà, la situazione della Chiesa, perché non spiegano una cosa: la letizia del volto del Papa. Mi veniva questa idea quando ho visto per l’ultima volta il Papa con il suo volto risplendente prima del chiudersi della porta a Castelgandolfo; possiamo dare tutte le interpretazioni che vogliamo, ma quella faccia lieta resta, e ciascuno deve misurarsi con questo: se qualsiasi interpretazione è in grado di dare ragione adeguata di questa letizia.

E allora qual è il vero senso di questo gesto?
Secondo me soltanto che c’è Qualcuno che riempie il cuore del Papa, che lo fa traboccare di quella gioia che si vede nella faccia. Tutti noi abbiamo esperienza di questo. Non è una strategia, non è qualcosa che possiamo darci noi, non è qualcosa che possiamo raggiungere con qualche percorso molto ben pensato; è qualcosa che ci troviamo addosso quando succede qualcosa di così grande, di così bello che ci riempie, tanto che ci fa risplendere la faccia. È una pienezza all’origine della libertà.

Ratzinger però non ha una personalità particolarmente emotiva, lui stesso dice di sé: «Non sono un mistico». Il suo è stato un percorso molto razionale, molto intellettuale anche.
È per questo che ancora occorre dare una spiegazione adeguata per questo, perché non è una persona in grado di prendere una decisione di questo calibro senza capirne la portata e le conseguenze, non è una persona che fa un gesto non pienamente consapevole. Per questo non si può ridurre a un problema sentimentale questa letizia di cui parlo; è una letizia che ha un’origine talmente profonda, talmente radicata nel profondo dell’essere. Per questo dicevo… mi domandavo: ma qualcuno si domanda che cosa vuol dire Cristo per Joseph Ratzinger, per la sua persona? Perché chiunque lo può vedere, quando ha un’esperienza vera di amore, che quello che riempie la vita non è nessuna strategia, è trovarsi davanti a una presenza che sorprendentemente lo fa risplendere. È soltanto se noi partiamo dall’esperienza elementare del vivere che possiamo capire l’esperienza elementare di un altro. Senza questo rimaniamo nella nostra interpretazione, senza guardare quello che abbiamo davanti; perché se qualcuno ci dice - quando ci vede così contenti fino al punto che si domanda -: «Ma cosa ti è successo?», non è che basti a spiegare [questo] una strategia o un coraggio. «Perché sei venuta contenta a lavorare oggi?», diciamo, «che cosa ti è successo?» È un’altra cosa, è un Altro che è all’origine di quella faccia che uno trova nel collega o nell’amico.

Insomma lei dice: [il Papa] ha riportato la Chiesa a riflettere sulla sua natura, alla fine sul fondo della questione, cioè su Gesù Cristo.
Esatto. Questo è quello che lui ha detto. La questione è che per poter capire questo occorre che le persone che guardano questo gesto senza ridurlo possano aver avuto qualche tipo di esperienza. Perché noi possiamo capire l’esperienza di un altro se in qualche modo noi abbiamo fatto esperienza di quello, altrimenti noi pensiamo di capirlo, ma lo riduciamo, e per questo dobbiamo dare altre interpretazioni. È soltanto una persona per cui Cristo è reale, non soltanto una creazione dell’immaginazione, una autoconvinzione, non soltanto il cristianesimo come un’etica, non soltanto ridotto tutto a organizzazione, ma una vita - come ha detto l’ultima volta parlando ai cardinali: la Chiesa è una vita che sgorga costantemente dalla presenza di Cristo -, che può spiegare una cosa del genere. Capisco che questo per tante persone non è una spiegazione perché, non avendo esperienza di Cristo come qualcosa di reale, pensano che non può essere questa la spiegazione. Io lo capisco, è perfettamente comprensibile, ma è soltanto quando uno fa questa esperienza - come facevano quelli che l’hanno incontrato [Cristo]: «Mai abbiamo visto una cosa così» - che può capire un’esperienza del genere.

E tuttavia questo gesto comunica anche un’ansia di rinnovamento, di cambiamento, di autoriforma della Chiesa.
Ma questo mi sembra che in tutto quello che lui ha detto dopo è presente, perché è come se nel gesto ci fosse non soltanto il richiamo al rinnovamento, dicendo che cosa è la Chiesa e che cosa è Cristo, ma c’è anche il metodo: guardate che se Cristo non diventa questo per noi, non si può rinnovare la Chiesa con delle strategie, e se non ci convertiamo a Lui, non nel senso tante volte in cui intendiamo questa parola “conversione”, come se fosse di nuovo qualcosa di moralistico; no, se Cristo non diventa per noi la cosa più cara, sarà impossibile il rinnovamento, perché l’uomo ha un desiderio di pienezza: se non la trova in una presenza come Cristo, la cerca altrove, tutti la cerchiamo altrove se non è questo. Per questo non soltanto il gesto di per sé è già un richiamo, ma ci offre anche il metodo e la strada per rispondere a questo richiamo; non è soltanto un richiamo moralista, ci testimonia la strada. Come nel primo incontro che racconta il Vangelo, nel primo incontro c’è la risposta e la strada, quando i due primi, Giovanni e Andrea, hanno incontrato Gesù, hanno incontrato una persona, una presenza così eccezionale che lì c’era la strada, tanto è vero che sono tornati il giorno dopo a cercarLo e sono diventati Suoi per il resto della vita. La questione è se la Chiesa capisce che questo è il metodo; soltanto se la Chiesa diventa una presenza, se ogni cristiano diventa questo tipo di presenza così che, guardandolo, uno vuole tornare a vederlo il giorno dopo perché è decisivo per il vivere.

Ecco, secondo lei quali sono le necessità della Chiesa in questo momento?
La Chiesa necessita di quello che lui ci ha detto con l’indire l’Anno della Fede, cioè la Chiesa ha bisogno, come tutti abbiamo bisogno in ogni momento della nostra vita, di riscoprire che cosa ci è accaduto quando siamo diventati cristiani, riscoprirlo di nuovo come qualcosa di affascinante, di nuovo, di veramente attraente per la vita. Se si riduce questo a una qualsiasi delle riduzioni odierne del cristianesimo: organizzazione, etica, spiritualismo, tutto questo non è in grado di prendere la totalità dell’io, e se non prende la totalità dell’io cerchiamo la soddisfazione altrove. A me piace tantissimo una frase di san Tommaso che riassume bene questo: «La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente la sostiene, dove trova la più grande soddisfazione». Il problema della vita per ciascuno di noi, credenti o non credenti, è dove trova uno la più grande soddisfazione. La questione è che in tutte le presenze che incontriamo, tutte le persone che incontriamo in un certo momento ci soddisfano e poi tante volte decade. Qui l’unica questione è se c’è una presenza in cui la soddisfazione non solo non decade, ma cresce nel tempo, perché altrimenti la vita perde di significato. Ci troviamo in quella famosa frase di Eliot: «Perdiamo la vita vivendo». Purtroppo questa è l’esperienza di tanti. Invece l’esperienza cristiana ci offre un’altra possibilità: guadagnare la vita vivendo. E tu vedi che questo è vero perché in una persona all’età del Papa tu non vedi che è perdente; vedi che nel massimo della sua maturità, nella faccia tu vedi che questo uomo guadagna la vita vivendo.

Don Julián, le faccio anche una domanda, se vuole, banale, ma realistica. Che identikit può avere il nuovo Papa?
Mi sembra che quello che stiamo dicendo è questo - non è che occorra un identikit particolare -: occorre un cristiano, un credente, una persona che possa testimoniare, come ha fatto Benedetto XVI e prima Giovanni Paolo II – per citare gli ultimi due – la bellezza di Cristo; perché il problema oggi è questo: in un mondo smarrito - abbiamo ben presente la situazione, dove ci troviamo come mine vaganti -, che le persone possano trovare qualcosa a cui ancorarsi, che possa veramente rispondere. E questo non è prima di tutto un’organizzazione, prima di tutto un comitato, è un cristiano – diciamo –, una creatura nuova. Mi sembra che è la scoperta dell’acqua calda dire queste cose, ma è semplicemente quello che tutti desidereremmo trovare accanto, trovare davanti: una persona che, guardandola, ci faccia compagnia nelle cose fondamentali del vivere.

Lei citava prima il poeta inglese Eliot. Ecco, il suo amatissimo predecessore, don Giussani, rispondendo a una domanda, in una delle sue ultime interviste televisive diceva proprio a proposito della famosa frase di Eliot: «È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?», lui rispondeva: «Tutte e due» e diceva: «La Chiesa si vergogna di Cristo».
Sì, in un certo modo sì. La questione è: perché ci vergogniamo di Cristo? Perché, non avendoLo scoperto con tutta la nostra umanità, pensiamo che non offriamo a noi stessi e agli altri la cosa più grande che possiamo offrire. Se uno dà un regalo a un altro, lo dà contento, perché considera che gli fa un piacere, che gli dà il meglio che ha, ma per poterlo offrire così, con questa libertà, con questa gioia, con questa letizia, occorre che sia convinto che questo è un bene per l’altro, e fa questo soltanto se ha la convinzione che è un bene per sé. E la questione, allora, diventa sempre la stessa: che cosa abbiamo noi di più caro? Perché se noi non abbiamo di più caro - come diceva il famoso Solov’ev - Cristo, allora è difficile che noi non abbiamo vergogna di proporlo. E quando uno ha questa letizia, questo si vede soprattutto nelle persone che lo incontrano di nuovo, quegli ultimi appena arrivati che sono così traboccanti della letizia di quello che hanno incontrato che non hanno nessuna vergogna di dirlo, tanto sono convinti di offrire agli altri quello che per loro è stata la scoperta della vita, come succedeva all’inizio e come succede adesso nelle persone che lo riscoprono. Il problema è questo: che la Chiesa, che ciascuno di noi come cristiani possiamo riscoprire questo.

Nell’ultimo discorso, ricevendo i preti della diocesi di Roma, Ratzinger ha concluso dicendo: «Cristo vince». In che senso è vera questa affermazione?
È una certezza metafisica e esistenziale. La questione è che, secondo un disegno che non è il nostro, vince in coloro che Lo accettano; a coloro che Lo accettano dà la potestà, il potere, la possibilità di sperimentare che sono figli di Dio, cioè che sono così in grado di poter vivere quella pienezza che Lui dà che allora vince. Perché… perché, cosa è la vittoria? La vittoria è non un potere, non un’egemonia, non una capacità di controllo, di dominio o di possesso dell’altro, è la capacità di conquistare il nostro io fino alla radice, di attirarci così tanto che possa veramente conquistarci. Questa è la vittoria di Cristo. Senza questo il cristianesimo non ha interesse, né per noi né per gli altri.

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Ritiro di Quaresima per le Comunità della Sicilia Orientale

Catania 10 marzo 2013

Don Giuseppe Baturi

Lezione

 

Don Giuseppe

Commentando il gesto del Papa, don Carron scriveva: <<Con questo gesto, tanto imponente quanto imprevisto, il Papa ci testimonia una tale pienezza nel rapporto con Cristo da sorprenderci per una mossa di libertà senza precedenti, che privilegia innanzitutto il bene della Chiesa. Così mostra a tutti di essere totalmente affidato al disegno misterioso di un Altro>>. Un gesto, quindi, che testimonia questa pienezza nel rapporto con Cristo, che rende Benedetto XVI libero. Libero per il bene della Chiesa. E così mostra a tutti di essere totalmente affidato al disegno misterioso di un Altro. <<Chi non desidererebbe una simile libertà?>>. Questo è il punto di partenza sempre, ma, in questo tempo, in modo particolare: il desiderio di questa libertà. Il desiderio di questa pienezza che rende Benedetto XVI così libero di fronte alla storia. E non si tratta di un gesto improvviso, ma di una consapevolezza che è maturata nel tempo.

Nel 1998 l’allora cardinale Ratzinger scrisse una nota, molto importante dal punto di vista dottrinale, sul primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa. Pietro, in quel momento, era Giovanni Paolo II. Ratzinger scrisse questa nota per illuminarne il primato dentro il mistero della Chiesa. Mi ha molto colpito rileggere questo brano perché finisce in questo modo: <<Non sono mancati nella storia del Papato errori umani e mancanze anche gravi: Pietro stesso, infatti, riconosceva di essere peccatore. Pietro, uomo debole, fu eletto come roccia proprio perché fosse palese che la vittoria è soltanto di Cristo>>. Impressionante! Siamo nel ’98: Ratzinger, allora cardinale, rifletteva sul Papato e diceva che Pietro è un uomo debole, che ha commesso degli errori. Poi c’è la debolezza umana: perché è diventato roccia? Come mai un uomo, segnato da tale debolezza, è diventato la roccia? <<Pietro, uomo debole, fu eletto come roccia proprio perché fosse palese che la vittoria è di Cristo e non risultato delle umane forze>>. E’ debole, ma ha fede. E per questo può essere la roccia, perché diventa evidente che la vittoria è di Cristo. La vittoria non è frutto del nostro sforzo, ma dono dato da Cristo presente. <<Il Signore volle portare in vasi fragili il proprio tesoro attraverso i tempi>>. Cosa è stata la declaratio dell’11 febbraio se non un’impressionante, pubblica dichiarazione di fragilità? Perché questo non è motivo di vergogna, non è motivo di sensi di colpa? Perché è così diverso da noi? Perché Benedetto XVI sa che il Signore ha voluto portare in vasi fragili il proprio tesoro attraverso i tempi. <<Così la fragilità umana è diventata segno della verità delle promesse divine e della misericordia di Dio>>. Impressionate cosa scriveva quindici anni fa, a proposito del primato di Pietro, l’allora cardinale Ratzinger. La fragilità è diventata il segno della verità delle promesse di Cristo, il segno più efficace della misericordia di Dio. Questo significa che Benedetto XVI aveva e ha un rapporto così pieno con Cristo, totalmente affidato a Lui ed è libero. Libero rispetto alla storia e libero rispetto alla propria fragilità.

Il punto di partenza è il nostro desiderio che sia anche per noi così. Come mi scriveva qualche giorno fa un amico: <<Ma qual è l’affetto che veramente sostiene la mia vita?>>. Ora dobbiamo guardare a noi, perché il contraccolpo subito da ciò che ha fatto Benedetto XVI deve poter diventare un giudizio per noi. <<Qual è l’affetto che veramente sostiene la mia vita? Nulla di quello che apparentemente reggeva la mia vita personale, lavorativa e sociale resiste. Le cose non sono andate e non vanno come dovevano andare, come io pensavo e ritenevo giusto che andassero. La realtà mi supera da tutti i lati con delusioni, inaspettate e nuove possibilità. Desidero per me e per le persone care la familiarità che il Papa ha con Cristo. Come sarebbe più lieta la vita con questa familiarità>>. Libera e lieta. Ma come si conquista questa familiarità? Come avviene questo affetto? Qui, lo comprendiamo bene, non si tratta di confezionare un discorso, non è questione di ragionare o di ripetere discorsi, ma di fare un’esperienza. Perché don Carron ha potuto leggere così il gesto del Papa Emerito? Perché deve aver fatto un’esperienza che gli rende leggibile il gesto di un altro. E noi come possiamo capire chi ci parla, chi compie questi gesti? Lo comprendiamo, se facciamo in  qualche modo un’esperienza simile. Non si tratta di confezionare un bel discorso e ripetere parole già dette, ma fare un’esperienza per cui uno può capire, altrimenti rimangono frasi senza riscontro nella nostra vita. Siamo incapaci di leggere la storia: che cosa è accaduto davanti a noi? Che cosa sta accadendo davanti a noi? Ci veniva detto agli esercizi della fraternità: <<Se non arriviamo a fare questa esperienza di libertà e di pienezza, di affidamento, allora qualsiasi momento, qualsiasi difficoltà, qualsiasi malattia, qualsiasi crisi, qualsiasi imprevisto, qualsiasi caos, qualsiasi scandalo [la nostra vita, insomma, più qualcosa di bello in buona misura], qualsiasi sbaglio può far saltare tutto>>. Allora la domanda mi sembra chiara: come può accadere questa esperienza? Su cosa dobbiamo lavorare, per cosa dobbiamo pregare?

Qualche giorno fa, leggendo l’ufficio delle letture, ho incontrato una meditazione di San Teofilo di Antiochia, che dice così: <<Se dici: fammi vedere il tuo Dio, io ti dirò: fammi vedere l’uomo che è in te. E io ti mostrerò il mio Dio>>. Tu vuoi vedere Dio? Ma tu chi sei? “Fammi vedere il tuo Dio” e io ti rispondo “fammi vedere l’uomo che è in te”. <<Fammi vedere se gli occhi della tua anima vedono, se le orecchie del tuo cuore ascoltano. Dio, infatti, viene visto da coloro che lo possono vedere, da quelli che hanno gli occhi; ma alcuni li hanno annebbiati e non vedono la luce del sole>>. Don Giussani ci diceva: <<Non manca il divino tra di noi, manca l’umano>>. Non manca il sole, mancano gli occhi per riconoscerlo. Per il fatto che i ciechi non vedono non si può concludere che la luce del sole non brilla. Cristo continua a vivere, brilla tra di noi. Fammi vedere l’uomo che sei.

Quando lo specchio si deteriora il viso dell’uomo non può essere visto in esso. Allo stesso modo: quando il peccato ha preso possesso dell’uomo, egli non può vedere Dio. Mostra, dunque, te stesso. L’interrogazione su Dio è sempre l’interrogazione sull’uomo che siamo, come sono i nostri occhi. Dio c’è e continua a splendere come sole, continua a riscaldarci, ma, se non ci sentiamo illuminati, se non ci sentiamo scaldati, è perché abbiamo come uno specchio deteriorato, che non ci aiuta. I nostri occhi sono annebbiati perché, per riconoscere il sole che è Cristo, occorre un umano limpido, desideroso. E che significa questo? Significa perfetto? No! Cos’è che soprattutto fa ostacolo da questo punto di vista? A che cosa soprattutto la Chiesa si rivolge quando ci invita alla conversione? C’è un primo deficit da guardare che si chiama dimenticanza. E’ la dimenticanza. Dice la Bibbia: <<Così tu ripaghi il Signore, popolo stolto e privo di saggezza? Non è Lui il Padre che ti ha creato, che ti ha fatto, che ti ha costituito? E Giacobbe si è ingrassato e ha recalcitrato. [Si, perché ti sei ingrassato, impinguato, rimpinzato e poi hai respinto Dio che ti aveva fatto. Hai goduto dei doni di Dio e poi te ne sei dimenticato]. Ha disprezzato la roccia sua salvezza. La roccia che ti ha generato tu hai trascurato>>. L’invito alla conversione è l’invito a far memoria, a non trascurare la roccia che ci ha generato. Hai dimenticato il Dio che ti ha procreato. Hai goduto dei beni e hai dimenticato il donante. La roccia che ti ha generato tu hai trascurato, hai dimenticato il Dio che ti ha procreato. La dimenticanza quindi e poi l’infedeltà. Cos’è l’infedeltà? E’ il volgersi verso altri dei. Il volgersi verso altro, sperando da altro la soddisfazione della vita. Su questo il movimento ci sta richiamando particolarmente in questi mesi.  Esattamente dove troviamo soddisfazione nella vita? Perché, se non la troviamo in Cristo, la cercheremo in altro. Senza negare Cristo, la vita si appoggerà su altro. Anche qui la Bibbia esprime il dolore di Dio: <<Ma quale ingiustizia trovavano in me i vostri padri per allontanarsi da me e correre dietro al nulla, diventando loro stessi nullità>>. Vivere correndo dietro il nulla: il potere, i soldi, il successo, la realizzazione di sé. Non è questione dei politici, è questione di ciascuno di noi. <<Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, ma cisterne piene di crepe che non trattengono l’acqua>>. Non so se è chiara l’immagine: avete abbandonato me, che sono la fonte dell’acqua viva, per potervi dissetare utilizzando delle cisterne fatte con le vostre mani, ma che sono screpolate e non trattengono l’acqua. Quindi avete commesso un peccato e ci avete rimesso: peccatori e idioti, potrebbe dire in buona sostanza. E poi questo brano di Geremia finisce così: <<Ma renditi conto [renditi conto: questo è l’invito alla conversione di quaresima] e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore tuo Dio e non avere più timore di me>>. Perché, altrimenti, non è possibile neanche la preghiera, non è possibile la gratitudine, se non ci si rende conto di quanto è triste e amaro abbandonare la sorgente dell’acqua viva. E’ la nostra esperienza: l’esperienza di questa amarezza, di questa tristezza tutte le volte in cui ci siamo allontanati, perché non sono passaggi che si compiono una volta per tutte.

Allora l’invito della quaresima è l’invito a rendersi conto e a desiderare Altro, a non correre verso il nulla, altrimenti diventiamo anche noi nullità. La Pasqua, ormai vicina, è per noi motivo di gioia perché la redenzione, il frutto della resurrezione, è che diventiamo capaci di vivere per Qualcosa che non è il nulla, per Qualcosa che resta. Noi saremmo incapaci di vivere per l’eterno, ma il frutto della resurrezione è che diventiamo capaci di vivere per Qualcosa che resta. Dice San Pietro: <<Voi, non a prezzo di cose effimere, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ma con il sangue prezioso di Cristo>>. La resurrezione che celebreremo è questa liberazione da una condotta di vita vuota. Cristo è morto, ha versato il suo sangue prezioso perché io sia liberato da una vita vuota, che insegue cose da nulla. Perché chi insegue cose vane diventa vanità, ma chi vive per Dio diventa simile a Lui. Per questo il frutto della resurrezione è la vita nuova: <<Consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio>>. Ecco: o viviamo inseguendo il nulla o, per grazia, diventiamo viventi per Dio in Cristo Gesù. Questa è la posta in gioco. Non è uno sforzo umano. Cristo ha versato il suo sangue prezioso per liberarci da questa vuota condotta. Allora, resi coscienti di quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, preghiamo. La Settimana Santa ci fa pregare in un modo insuperabile: <<Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale e fa’ che riprenda vita per la passione del tuo unico Figlio>>. Guarda la mia debolezza, o Dio, e fa’ che riprenda vita.

Che cos’è questa vita che bisogna riprendere? Da dove riprendere? Dalla cosa più umana che si possa pensare, dalla cosa più semplice. La settimana scorsa, durante l’assemblea dei Responsabili dell’Italia, mi ha molto colpito un intervento di Mariella Carlotti. Raccontava di un suo alunno che aveva votato Grillo. Diceva Mariella: <<Io ho spiegato i criteri della nota politica di CL e con quei criteri lui ha votato Grillo>>. Mariella ha chiesto quindi all’alunno: <<Perché hai votato Grillo in base a quei criteri?>>. <<Professoressa, io voglio cambiare tutto>>. La cosa mi ha molto colpito perché il desiderio di cambiare è la cosa più umana che esista. Di cambiare vita. Perché senza questo desiderio, senza che la celebrazione della Pasqua incontri questo desiderio, vanifichiamo la morte di Cristo: ma che è venuto a fare, se non sentiamo il bisogno di novità, il bisogno di un cambiamento? Che siamo venuti a fare stamattina qui, se non per questo? Cambiare vita, cambiare tutto, perché il cambiamento è l’aspetto più concreto di quelle esigenze originali dell’uomo, di verità, di giustizia, di amore, di felicità. Tutte queste esigenze, alla fine, emergono nella nostra coscienza come esigenza di cambiamento. Insegnava una volta don Giussani: <<Noi abbiamo l’esigenza della verità, ma l’esigenza della verità vuol dire che adesso sento mancare qualcosa>>. Perciò devo fare dei passi, è l’esigenza di camminare. Invece di cambiare mettete l’idea di camminare, volare, navigare, mettete l’idea che volete voi purché implichi un cambiamento. A mio avviso l’esigenza della verità o l’esigenza della perfezione è l’esigenza di un cambiamento, perché, altrimenti, non  l’avremmo adesso. Quando nasce l’esigenza di un cambiamento? Quando io avverto assolutamente utile qualcosa che non ho ancora in pienezza. Tanto è vero che don Giussani spesse volte ci ha raccontato di quel filosofo - all’inizio della filosofia occidentale – che scriveva: <<Mandaci, o padre Giove, il miracolo di un cambiamento>>. E ancora Giussani commentava: <<L’uomo sta male, l’uomo, se è serio con se stesso, percepisce i suoi limiti, ma li percepisce come equivoci, perché indebiti da un certo punto di vista. Percepisce la sete di cose che non realizza e non ha ancora. Perciò il desiderio del cambiamento somma la sete di verità e di bene che l’uomo ha>>. E citava, in quella circostanza, un detto apocrifo di Gesù che dice così: <<Venni tra di loro, li trovai ubriachi, nessuno di loro aveva sete>>. Noi potremmo essere ubriachi, ma non avere sete. E commentava: <<Siccome Lui è l’acqua che risponde alla sete, se uno non ha sete, non Lo trova. Chi non ha desiderio di cambiamento [chi è contento di sé] è un borghese della peggior specie>>. Questa parole io le ho sentite alla mia prima equipe del CLU nel febbraio dell’84. Ricordo perfettamente queste parole dette nel salone di un hotel – hotel….frequentavamo posti un po’ più “sobri” – a Verona. Io avevo vent’anni e non le ho più dimenticate. Chi non ha più questa sete, chi è contento di sé, è un borghese della peggior specie. Il Signore ci può trovare ubriachi di parole, ma non con una vera sete di capire. Don Carron, invece, ci sta chiedendo questa problematicità: aver sete di capire, di capire la vita. Che sfida, allora, per noi, il fatto che sia affermato così potentemente un movimento “politico”, tra virgolette, che ha puntato tutto sul cambiamento. Questo non ci deve spiazzare, perché noi siamo nati per questo, per la nostra fede. E’ la fede di un Signore che dice di Sé: <<Io faccio nuove tutte le cose>>. All’esigenza di cambiamento che è nel cuore dell’uomo corrisponde la certezza di un Risorto che, nell’Apocalisse, dice: <<Io faccio nuove tutte le cose>>. Nel Vangelo di Matteo Gesù stesso dice che <<ogni scriba, divenuto discepolo del Regno dei Cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche>>. Questo è il segno che apparteniamo a questo nuovo Regno, che la vita è una sorpresa continua. Cose nuove e cose antiche, perché la vera novità è che si manifesti la verità di qualcosa che c’era anche prima.

Comunque volevo dire che non possiamo non ricominciare da questo desiderio di novità, questo desiderio di fronte allo spettacolo di Benedetto XVI di un cambiamento: anch’io vorrei essere come lui. Questo veramente fa la differenza perché l’ideologia cerca sempre delle conferme per cui passa sempre in modo triste, ripetitivo. Invece chi cerca Dio non cerca conferme, cerca cose nuove, cerca il cambiamento. Allora l’invito potentissimo che ci viene – pensiamo a quello che ci è stato detto agli esercizi della Fraternità – è essere leali con la nostra umanità, che è fame e sete, desiderio di cambiamento. <<Guai ai sazi - dice Gesù -. Beati gli affamati>>. La prima tentazione di Gesù qual è? E’ quella di fermare la fame con il potere. <<“Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane”. Ed Egli rispose: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”>>. E’ meglio la fame che una sazietà procurata dal nostro potere. Proprio nella prima domenica di Quaresima la Chiesa ci ha fatto pregare: <<Il pane del Cielo che ci hai dato alimenti in noi la fede, accresca la speranza, rafforzi la carità e ci insegni ad aver fame di Cristo>>. Fame di Cristo: pane vivo e vero. <<E a nutrirci di ogni parola che esce dalla tua bocca>>. Allora possiamo capire perché la Chiesa, in questo periodo, ci chiede la preghiera, il digiuno e la carità. Perché che cos’è il digiuno? Il digiuno è quel gesto per cui anche il corpo sente fame, la stessa fame dell’anima. E’ come se il corpo, pedagogicamente, deve poter partecipare della fame del cuore. Non lo proviamo perché non facciamo digiuno. E che cos’è la preghiera se non questa fame, sete, che diventa invocazione. Benedetto XVI, all’Epifania, diceva: <<La preghiera vuole strapparci dalla nostra falsa comodità, dal nostro essere chiusi nelle realtà materiali e visibili e trasmetterci l’inquietudine verso Dio>>. Chi prega è inquieto. Se non è inquieto, non sta pregando. Sta ripetendo parole: è sempre meglio che ripetere quelle sbagliate, però… Qui c’è un’altra cosa: la preghiera vuole trasmetterci l’inquietudine verso Dio e, quindi, renderci inquieti e aperti gli uni per gli altri. Questa è la radice della carità, perché l’inquietudine, questo desiderio di cambiare, questo desiderio di Dio, dell’Assoluto, mi rende disponibile al bisogno del mio fratello. Questa esigenza di cambiamento, che diventa esigenza di Dio, è ciò che, pedagogicamente, la Chiesa ci vuole fare sperimentare attraverso il digiuno, attraverso la preghiera, attraverso la carità. A questo pensavo, quando ho riletto quel passo di Giussani: <<Chi non ha sete è un  borghese della peggior specie>>: quando il poeta dice: <<Ma dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?>>.

Ma - terzo passaggio – questa sete non basta: perché la vita cambi, perché la vita sia carica di soddisfazione, è necessaria la presenza di Chi dice: <<Io faccio nuove tutte le cose>>. Un altro amico mi scrive: <<Noi, in famiglia, abbiamo bisogno di “belle” circostanze>>. Mi ha molto colpito questo: abbiamo bisogno di belle circostanze. Noi abbiamo bisogno che Dio sia una circostanza. Non basta che sia un’idea, non basta che sia un pensiero, non basta che sia un ricordo, perché sul ricordo non posso appoggiare nulla. Non basta che sia una speranza, deve essere una circostanza, circostanza: qualcosa che mi circonda, che possa vivere. Noi diciamo: la contemporaneità, che Cristo sia contemporaneo. Ecco il volantone: <<La vicenda di Gesù di Nazareth non può restare confinata in un paese lontano: è decisiva per la nostra fede. Perché la fede è affermare che Gesù di Nazareth è contemporaneo di ogni uomo e donna che vive oggi>>. Poi don Giussani: <<Il cristianesimo è un avvenimento che è stato annunciato nei secoli e ci raggiunge oggi>>. Il vero problema è che noi lo riconosciamo.

Allora, come ci è stato detto agli esercizi: perché la vita si sostenga è necessario questo incontro: da una parte un io non ridotto, una umanità che ha fame, che ha sete, che è inquieta, che cerca, che si interroga di fronte ai fatti, che non cerca conferme, cerca cose vere, che ama la verità più di sé, perché la nostra natura è attesa; ma, dall’altra parte, è necessario Cristo contemporaneo a noi, che mi sta davanti con tutta la sua imponenza. Non è un ricordo, non è un’etica, non è un sentimento, è una presenza. Diceva don Carron: <<Presente, carnale, irriducibile, facile da riconoscere e attraente>>. Noi abbiamo bisogno che tanti bei pensieri diventino circostanze, presenza. Perché, in quella volta lì dei miei vent’anni, don Giussani continuava: <<Il cambiamento, l’esperienza del cambiamento è nel riconoscimento di Cristo>>. Il nostro cambiamento è nella fede: vale a dire nel riconoscimento di questa presenza contemporanea alla storia. Non bisogna fare sforzi ascetici, trattenere il respiro, irrigidire i muscoli. Si tratta di arrendersi riconoscendo una presenza tra di noi. <<Cristo ritorna continuamente ad essere se stesso>>. Lo abbiamo incontrato, ritorna ad essere se stesso, cioè l’origine della vita, il vincitore della morte. <<La contemporaneità di Cristo nella storia è una promessa per il presente, è un centuplo sperimentabile, anche se è sempre diverso dall’immaginabile. Quanta gente mi viene a dire: ma il centuplo non c’è. Dov’è il centuplo?>> Guardiamo in faccia: la vera obiezione è questa. Mi è stato promesso qualcosa che non vedo, che non riconosco. Questa è la vera obiezione. <<Certo – continuava don Giussani -, se tu lo pensi secondo la tua immagine, allora non è più verificabile, e riproponi i termini della tua mancanza. La redenzione è un centuplo sperimentabile, ma sempre diverso da quello immaginato>>. Sempre. Se non fosse diverso, non sarebbe Dio. Ecco, allora, ciò che sostiene la vita: da una parte riconoscere lealmente la nostra natura umana come attesa, per assecondarla, non per contrastarla; dall’altra parte la presenza di Cristo contemporaneo, che si mostra tale dentro un fascino che mi attrae, qualcosa di carnale, di irriducibile. Ma proprio in questi giorni possiamo dire che questa contemporaneità di Cristo ci desta dal nostro torpore attraverso fatti. Abbiamo bisogno di belle circostanze, cioè di fatti dentro i quali Cristo ritorna ad essere quello che è. Isaia dice così: <<Ora ti faccio dire cose nuove e segrete che tu nemmeno sospetti [chi sospettava che il Papa si dimettesse; io avevo studiato quel canone, ma come tante cose che si studiano]. Ora sono create, non da tempo. Prima di oggi tu non le avevi viste>>. Comprendiamo che stiamo vivendo un momento eccezionale, che c’è una eccezionalità della presenza di Cristo in questo tempo. Noi siamo testimoni di qualcosa che non si era visto prima. Avvertiamo con trepidazione questo privilegio. <<Prima che tu dicessi già lo sapevo, no! Tu non le avevi mai udite, né sapute, né il tuo orecchio era già aperto da allora>>. Dio, per dare prova di Sé, dice: <<Io faccio cose che tu manco immaginavi>>. Allora quando accade qualcosa di simile è facile dire che c’è Dio di mezzo, è Cristo. E’ Cristo che torna ad essere novità per la vita. Ecco perché la vicenda di Benedetto XVI ci ha costretto a quel momento di silenzio, di cui ha scritto Carron, e ad alzare lo sguardo. Cose mai viste, cose mai udite. Questo sostiene la vita: poter vedere il nuovo che accade e che ci aiuta a riconoscere chi è Dio. E’ l’inizio, sempre: Dio inizia una cosa nuova, non noi. Quanti fatti in questi mesi, anche carichi di ambiguità, di contraddizioni, che ci hanno stordito. Quante campagne di stampa a partire da alcune regioni contro il movimento. Ci è stato detto che sono per la nostra maturazione. Poi l’anno della fede, il Sinodo e la lettera che abbiamo ricevuto da don Carron, le elezioni. Anche qui cose antiche e cose nuove. Potremmo aver chiuso tutto dentro un ragionamento, a favore, contro, con distinzioni, sottodistinzioni. Oppure avvertire una pretesa nuova. E poi, certamente, la vicenda di Benedetto XVI. Cos’è importante in tutto questo? <<Che Cristo – ci è stato detto in una SdC -, dentro i fatti nuovi che accadono, rilancia la sua pretesa, aggrava la sua richiesta>>. Il Mistero alza la pretesa nei miei confronti, sfidandomi fin nel profondo di me stesso e chiedendomi: <<Ma tu a cosa tieni veramente, a cosa sei legato?>>. Allora comprendiamo che non ci fa paura nulla, né la malattia, né il caos, perché dentro tutto c’è questa parola carica di pretesa, ma anche di promessa. <<Ma tu a cosa tieni veramente, a cosa sei legato? Tieni di più a me, al fatto che tutti mi possano incontrare o a una forma costruita da mani di uomo?>>. Così diceva don Carron, a dicembre, in una SdC: <<Il Signore alza la pretesa per noi e per la nostra conversione, per la nostra appartenenza, perché sia sempre più pura e sempre più limpida.

Quarto punto. Sentiremo oggi la parabola del figliol prodigo. Qual è la questione? Il figliol prodigo vuole vivere i beni ricevuti dal padre lontano dalla casa. Non è possibile, non è possibile vivere il rapporto col padre lontano dalla casa. E’ la Chiesa. Agli esercizi ci è stato detto: <<La Chiesa e il carisma sono il luogo, la modalità della sua presenza tra di noi. La comunità è il luogo in cui la presenza di Cristo riaccade e in cui sono aiutato a riconoscerlo nei fatti che accadono>>. Si tratta non di stare dentro la compagnia come un oggetto inerte, ma di fare un cammino e riconoscere la presenza di Cristo come centro e origine di tutto ciò che siamo e di tutto ciò che facciamo. La settimana scorsa don Carron ci diceva: <<Smettiamola di contrapporre l’io al noi. Smettiamo di contrapporre la persona alla Comunità. Perché lo scopo della Comunità è creare persone, non sostituire, ma generare una personalità matura. Quando una persona è matura? Quando riflette il noi da cui è generata. Tre giorni prima della sua declaratio il Papa Benedetto XVI Emerito, visitando il seminario romano, tenne una lectio divina molto bella e commentò un brano della prima lettera di San Pietro. C’è un problema esegetico molto semplice: noi che sappiamo di Pietro, povero pescatore, la sua ignoranza, come fa a scrivere una lettera in greco perfetto? L’ha scritta lui, non l’ha scritta lui? Il Papa affronta questo problema. Se volete sapere di più, andate a leggere il discorso. Il succo è questo: forse non è lui che scrive o forse è proprio lui; che significa che è di Pietro? Non parla Pietro come individuo, ma parla come “ex persona Ecclesiae”, parla come uomo della Chiesa. Come persona ha una responsabilità personale. Come persona che parla in nome della Chiesa, però, non esprime idee private come un genio del secolo XIX che voleva esprimere solo idee personali, originali, che nessuno avrebbe potuto dire: no, non parla come un genio individualistico, ma parla proprio nella comunione con la Chiesa. D’altra parte questo è ciò che fa Cristo. Nell’Apocalisse, quando Cristo parla, si dice che c’è la voce di molte acque. Parla uno che ha una responsabilità che non può essere sostituita: sei tu. Ma quando parli tu, se sei generato dalla Chiesa, è come se parlasse il noi. Ma il noi non può sostituirti, non può sostituire la tua responsabilità in famiglia, al lavoro, nella cabina elettorale: devi dire il tuo io. Se ne può parlare in assemblea, ma don Carron, la settimana scorsa, ha detto: <<Smettiamola di contrapporre due cose che non possono essere contrapposte, o l’io o il noi>>. Il problema è: che qualità del noi è la Chiesa? E’ un noi che non sopprime, che non sostituisce l’io, ma lo esalta e gli fa fare il cammino che è anche fatica, suscita il suo impegno. D’altra parte un io che è persona non è un individuo staccato, individualistico, è un io dentro il quale rifluisce un noi. Di tutto questo occorre fare esperienza e aiutarci seriamente punto per punto. Allora la novità, la novità non sono le mie idee, non è il frutto del mio cammino, la novità è Cristo. E l’unica possibilità di parteciparne è convivere con Lui, a SdC. Solo dentro una convivenza si raggiunge una certezza. La novità è Lui che riaccade e io ne posso partecipare solo dentro la decisione di una convivenza, solo dentro un impegno di dialogo costante con Cristo, che abbia ad oggetto la realtà, ciò che accade, come sono, ciò che non capisco. Siamo nell’anno C e leggiamo da Luca, ma nell’anno A leggiamo della samaritana, del cieco nato. La samaritana, dopo quel lungo dialogo in cui c’è di tutto, dice: <<Io so che deve venire il Messia, chiamato Cristo. Quando Egli verrà ci annuncerà ogni cosa>>. E Gesù le dice: <<Sono Io che parlo con te>>. Cristo si svela in un dialogo, Cristo si svela e attesta la verità di Sé a gente che vive dialogando con Lui. Sono Io che ti parlo, tu continua a parlarmi. Anche il cieco nato: <<Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori. Quando lo trovò gli disse: “Ma tu credi nel Figlio dell’uomo?” Ed egli rispose: “Ma chi è, Signore, perché io creda in Lui?”. E Gesù gli disse: “Ma tu lo hai visto: è Colui che parla con te. Sono Io che parlo con te”>>. Per cui tutto l’impegno della vita è accettare che la vita e i fatti siano motivo di questo dialogo fiducioso col Signore presente.

Concludo con un brano di don Giussani tratto dagli ultimi suoi esercizi del ’99, se non ricordo male: <<Per cambiare occorre traspositare un rapporto, sostituirlo con un altro, oppure approfondire il rapporto [Il cambiamento non accade nel vuoto, accade in un rapporto], prendere più sul serio il rapporto, cercare di comprenderlo di più, di aprirci di più alla comunicazione che esso di se stesso fa a noi>>. Allora il desiderio di cambiamento diventa volontà di prendere sul serio il rapporto con Cristo contemporaneo. Per questo la parola utilizzata dalla Bibbia, colta nella Bibbia, nella nostra tradizione cristiana, per dire come avvenga il miracolo del cambiamento, che da una parte indica l’espressione di una condizione, dall’altra parte indica la forza del cambiamento, la forza di direzione del cambiamento, è la parola appartenenza. Il cambiamento ha un’appartenenza come condizione e fa emergere la parola appartenenza come decisiva per l’esistenza. Come può diventare Cristo l’affetto che soddisfa e sostiene la vita? Accettando l’appartenenza a Lui che continua a parlarci.


 


Assemblea

 

Primo Intervento

Ciò che ha segnato la mia vita in questo periodo, sul piano personale, è stata la domanda di pensionamento, che ho presentato con serenità, consapevole che segna la fine di un periodo delle mia vita e l’inizio di qualcos’altro. E’ una decisione che avevo preso in settembre e che ho formalizzato a fine febbraio: mi restano così sei mesi ancora di lavoro attivo. Pensavo di poter fare una navigazione tranquilla in questi sei mesi, magari raccogliendo i frutti di quanto ho seminato nei sette anni di lavoro presso l’Archimede. Invece una serie di circostanze mi hanno rilanciata nella necessità di confrontarmi con una maggiore e rinnovata verità di me, del mio ruolo nel mio lavoro. In questa situazione, anche per me, le dimissioni del Papa sono state un’occasione di grande libertà, cioè di rendermi conto che ciò che resta è la fede, la speranza, la carità. Mi sono ritrovata in una situazione difficile di relazione con persone, con circostanze, con le solite minacce di denuncia ai giudici del lavoro e cose di questo genere. In questo mi sono riscoperta in una dimensione che altre volte ho vissuto nelle mia vita, nei momenti di difficoltà: la capacità di andare oltre e di non essere vendicativa, ma di mettermi in dialogo. Contemporaneamente mi sono resa conto che ogni mia impazienza è frutto di una situazione di difficoltà o di peccato. Invece ciò che è necessaria è sempre la volontà di parlare, di spiegare, di dare le ragioni di come sono e di come mi comporto. In questo momento, ad esempio, un paio di classi mi pressano e alcuni docenti mi minacciano perché vogliono fare un viaggio di istruzione consistente in una crociera con motivazioni tipo interessarsi alla conduzione di una nave, al funzionamento delle macchine. Questa cosa io non voglio farla e devo darne le ragioni, spiegando, tra l’altro, che un viaggio di istruzione deve essere un’esperienza educativa. L’educazione dei miei ragazzi è la cosa che mi interessa più di qualsiasi altra e, in questi sei mesi, vorrei dare le ragioni della mia posizione fino all’ultimo dettaglio, perché sia l’esperienza del Papa che soprattutto quella dei martiri per la fede, che sono adesso nel mondo, mi interrogano moltissimo e credo che ciascuno debba utilizzare le circostanze che ha per parlare delle fede in modo credibile e ragionevole.

Don Giuseppe

Ti ringrazio. Voglio riprendere due cose di ciò che hai detto. La prima: se Benedetto XVI fa una cosa simile – io mi sono interrogato su questo -, deve esserci un’esperienza nella sua vita che la rende possibile. Allora ho cercato brani precedenti. “Deus caritas est”, la prima enciclica. A un certo punto parla degli operatori delle carità e dice: <<Chi è in condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare. Questo compito è grazia. Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili ». Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte l'eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d'aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo [Relax! Capito? Per colpa nostra il mondo non andrà all’inferno. Per esempio i figli: quanto i genitori sono angustiati per questo. Né per merito nostro andranno in Paradiso]. In umiltà [ questo mi ha impressionato rileggerlo adesso dopo otto anni] farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. [Ho fatto! Ho fatto! Adesso te lo riconsegno questo mondo. Ti riconsegno questa Chiesa. Ti riconsegno questi figli che non mi capiscono più. Adesso Tu fa’ il resto che è credere in Dio]. È Dio che governa il mondo, non noi [Rilassiamoci, per favore]. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza. [Questo è il punto per cui, otto anni dopo dice: <<Non ho più la forza>>]. Fare, però, quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo, questo è il compito [Finché ce la facciamo dobbiamo fare tutto. Mi ha colpito quello che lei dice: <<Io devo dare tutte le ragioni>>, perché quello che io ho detto non è l’invito a tirare i remi in barca. Al contrario: collaboriamo con questo Signore che governa il mondo. E collaboriamo entrando nel merito: dobbiamo dare tutte la ragioni. Perché – lo diceva don Giussani – <<il Signore si rivela a chi si impegna con la  realtà, a chi si impegna con la realtà totale>>, a chi dà le ragioni, a chi dà giudizi. Questo atteggiamento, che è la fede, è un prima rispetto all’impegno, ma è dentro l’impegno. Questo è impressionante, a proposito del pensionamento: fare quanto ci è possibile fare con la forza di cui disponiamo, finché ce ne dà la forza e poi affidiamo il resto al Signore.] che mantiene il buon servo di Gesù Cristo sempre in movimento [E qual è il compito? Fare, realizzare, cambiare il mondo? No!]: “L'amore del Cristo ci spinge”>>. E’ lasciarsi spingere dall’amore: questo rende liberi.

Allora, da una parte, che è proprio la tua condizione, sei aiutata a vivere questo atteggiamento: siamo servi di un Dio che governa il mondo. Gli prestiamo l’aiuto che ci chiede, fiduciosi, ma poi gli riconsegniamo il resto, perché Lui faccia il resto. D’altra parte, è giustissimo, l’amore di Cristo ci spinge ad entrare nel merito, perché la fede centra con tutto ed è matura, se è capace di generare ragioni. E le ragioni sono vere, se sono comunicabili, se l’altro le può capire. Dunque si apre realmente una nuova fase non meno entusiasmante, ma fino alla fine stiamo a posto con tutte le ragioni che dobbiamo dare. Questa fede - per chi vuole rintracciare il brano è la Deus Caritas est al numero 35 – è un prima rispetto all’esperienza, però è dentro: mi fa fare un cammino dentro i problemi, mi fa attraversare tutto lo spessore dei problemi, come è accaduto per le elezioni. E’ un prima la fede. Eppure, se incide, incide dentro, attraverso la ricerca di ragioni e di comprensione delle ragioni delle azioni. Grazie.

Secondo Intervento

Insegno in una scuola dell’infanzia in un istituto omnicomprensivo di Giarre. Quest’anno ho proposto, per la prima volta, l’iniziativa del “Dona Cibo”, inizialmente con tanti dubbi e tanti timori perché inconsciamente pensavo che l’esito dipendesse da me. Questo gesto semplice mi ha permesso di dire chi sono e a chi appartengo, qual è la cosa a cui tengo di più e perché lo faccio. Innanzitutto ho dovuto chiedere l’autorizzazione al mio dirigente. Premetto che quest’anno il mio dirigente non sta autorizzando gli insegnanti di religione a far partecipare gli alunni a qualsiasi iniziativa delle parrocchie. Non avrebbero potuto partecipare neanche all’inaugurazione di un oratorio. Mano male che è avvenuta di domenica, presieduta dal vescovo di Acireale, e ha potuto partecipare chi voleva.

Don Giuseppe

Non aveva nulla da autorizzare…

Secondo intervento

Infatti gli alunni sono potuti andare con i loro genitori, essendo domenica. Alla proposta del “Don Cibo”, invece, il suo si è stato netto e mi ha spiazzato. L’insegnante di religione mi aveva detto che a lei non aveva autorizzato nulla e, perciò, temevo che facesse altrettanto con me. Infatti non sapevo che cosa dire o fare, però non mi ha fatto neanche sedere che subito mi ha detto di rivolgermi ad una insegnante, che avrebbe fatto passare una circolare per avvertire tutti e tre i gradi di scuola. Io avevo pensato di farlo nella mia scuola, magari nel plesso centrale e, invece, no. Dovevo farlo in tutto l’istituto. Questo mi ha rilanciata nell’ambiente. Ho dovuto spiegare il gesto, darne la ragioni, andando per le classi. Il tempo lo ha trovato Gesù Cristo perché io non ne ero capace. Questa cosa, in questa misura, non era nei miei progetti, ma il Signore stupisce sempre di più. Sono rimasta colpita non solo dalla disponibilità del dirigente, della vicaria, ma anche dalla disponibilità dei miei colleghi, che ho potuto conoscere meglio facendo il giro per le classi. Colleghi sfiduciati…

Don Giuseppe

Perché, secondo te, questa disponibilità? Rispetto ad altre iniziative tu hai notato un atteggiamento difforme da parte del dirigente, degli altri. Ti sei chiesta come mai, perché?

Secondo Intervento

Mi sono scommessa io prima di tutto. Poi con alcuni di loro avevo un rapporto, anche se, ad esempio, i colleghi delle medie li conosco da pochi mesi.

Don Giuseppe

Interrogati su questo: perché questa volta hanno detto si? E così prontamente?

Secondo Intervento

Sono in attesa, vediamo. Passando per le classi ho dovuto dire che “Dona Cibo” non è una iniziativa fine a se stessa. Ho dovuto dire cosa c’è dietro, che cosa faccio, a chi appartengo. Io ho visto e, quindi, ho testimoniato ciò che ho visto. Anche a partire dalla mostra che abbiamo fatto a Giarre, pienamente calzante con questa esperienza.

Don Giuseppe

Ti chiedevo questo per due ragioni. E’ un ottimo esempio che ci aiuta a capire qual è la dialettica tra il noi e l’io. Il noi ti ha detto: <<Sai che c’è una bella iniziativa? Si fa così e queste sono le ragioni>>. L’io è: <<Me l’assumo>>. I giovani usano altri termini: <<Me l’accollo>>. E che significa “me l’accollo”? Parlo io, devo trovare la strada giusta…Allora il noi non sostituisce la tua responsabilità, ma ti suggerisce un impegno. Il noi ha come scopo non  la conquista del mondo, ma l’educazione di persone nuove. Al tempo stesso tu non saresti nulla, se dietro di te non ci fosse il “Dona Cibo”, la mostra e tutto il resto. C’è qualcosa di più importante della conquista del mondo? Io! La mia educazione! E questo è lo scopo. E questo già aiuta a capire tutti assieme. Ma vai a fondo tu, scommettiti tu, dai un giudizio tu.

L’altra aspetto che, secondo me, bisognerebbe sviluppare quando vi riunite lì, a Giarre, è questo: la nota di CL sulla politica dice che il primo fattore politico di cambiamento del mondo è la comunità cristiana. Allora perché hai potuto fare questa cosa qui? Forse perché hanno intravisto una diversità, che è la natura della comunità cristiana. Cosa cambia il mondo, cosa incide? Persone diverse! Rapporti di uomini diversi, che pongono questa diversità e la fanno diventare azione. Tornando al primo punto ribadiamo che lo scopo di tutto questo è la mia consapevolezza, la mia coscienza, la mia educazione: esige un noi, esige un  impegno dell’io. Grazie.

Terzo Intervento

Stamattina mi è sorta prepotente una domanda. Il centuplo è sempre diverso da come lo immaginiamo. Cristo si svela con una parola carica di pretesa, ma dentro questa richiesta c’è la promessa, per cui le circostanze, anche quelle più faticose e incomprensibili, sono il segno di questa promessa. Spesso, però, le circostanze ti spiazzano e, anziché essere avvertite come promessa, diventano obiezione al cammino che stai facendo. Perché accade questo?

Don Giuseppe

Perché accade questo? Perché siamo deboli. Anche questa può essere una obiezione. E’ perché accade questo che noi amiamo la Pasqua. Chi mi libererà? Cristo Gesù. Ogni anno la Chiesa ti fa fare memoria. E il tempo non è che gira su se stesso, come per i greci. Con una immagine possiamo dire che il tempo per i greci è come un cerchio. Per i cristiani è come una vite: gira e gira, ma, nel frattempo, va a fondo. Allora percepisci qualcosa che ti manca, poi desideri, poi ti fai la comunione, poi ti confessi e poi la Pasqua e dici: ecco chi mi libererà da questa pretesa.

Allora non è obiezione perché è strada. Io posso dire che questo fatto che mi è accaduto è una obiezione, cioè che impedisce, oppure che è una strada. Diceva Benedetto XVI: <<Certo il Signore ci ha donato tanti giorni di sole, di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante. Vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate, il vento era contrario, come in tutta la storia della Chiesa: il Signore sembrava dormire>>. Quando un domani si farà l’esegesi di tutti questi discorsi di Benedetto XVI, sono tantissimi questi riferimenti che suonano strani sulle labbra di un Papa. Il Signore a volte si nasconde, a volte tace. Il Signore sembrava dormire. <<Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è la nostra, ma è la Sua>>. Non possiamo affrontare il problema nella sua multiformità. La questione è la barca: di chi è? La vita di chi è? <<Il Signore non la lascia affondare: è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto. Così ha voluto perché è stata ed è questa una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha mai fatto mancare a tutta la Chiesa e a me la Sua consolazione, la Sua luce e il Suo amore>>. Che cosa rischiara questi momenti in cui il Signore sembra dormire? E’ una certezza! La certezza che c’è il Signore, che opera, che non lascerà che affondi la barca. Ed è una certezza, però, che è tutta poggiata su una esperienza: il Signore non mi ha mai fatto mancare nulla, mi ha dato consolazione, luce e amore. Allora: c’è nella tua esperienza qualcosa di più grande delle minacce che ti trovi ad affrontare? Su quello basa tutto. C’è nella nostra vita, altrimenti sono solo parole, un’esperienza che mi fa dire “non è una favola”? Qui non ti posso aiutare, devi essere tu a guardare la tua vita e a riconoscere punti di esperienza che possano darti questa certezza. Ci sono dei momenti, ma la barca è Sua e non si addormenta. Ed io ne ho fatto esperienza. Per questo il mio cuore è colmo di gratitudine. E’ un problema di esperienza. Questo ti permette di stare in piedi, comunque di avere un punto su cui poggiare. Perché accade? Perché siamo sfiniti da una fragilità mortale che, grazie a Dio, è stata vinta da una sovrabbondanza di luce. E’ tutto il preconio pasquale: dove è abbondata la colpa è sovrabbondata la grazia. Non possiamo vanificare la Croce di Cristo. Allora è morto invano? Se fossimo tutti giusti, sarebbe morto invano. Allora perché siamo qui? E’ per noi peccatori, è per noi deboli, per noi fragili, tutto questo. Voglio correggere solo un punto in quello che hai detto: non è solo una promessa; è una promessa perché è una presenza. Ed è una presenza perché ne puoi verificare le tracce nella tua vita. Con gli amici questo è un lavoro. Il lavoro di riconoscere tracce di questa presenza. Sempre Benedetto XVI, quando ha compito 85 anni, faceva un ragionamento: <<Certo, quando un bambino nasce, siamo tutti contenti. Perché contenti? Perché riconosciamo che è un bene vivere, è un bene la nascita, che è il dono più grande. Più grande forse no, perché la vita biologica è esposta a tante minacce. Forse dovremmo avere il coraggio di dire “non basta essere vivi”. Per poter dire che la vita è un  bene, occorre aver ricevuto una promessa più grande di ogni minaccia. E Cristo è questa promessa che riaccade continuamente. Tu sei un bene.

Quarto Intervento

Mi riferisco a due affermazioni che hai fatto stamattina: <<Chi non ha desiderio di Dio non Lo può riconoscere. Chi non ha sete è un borghese della peggiore specie>>.

Don Giuseppe

Dobbiamo essere più precisi, secondo me. Non diventa un’abitudine senza questa sete, una familiarità, perché il Signore può accadere anche quando tu non Lo aspetti. <<Mi feci trovare da chi non mi cercava>>. Il Signore è libero: chiama gente che Lo cerca e chiama gente che sta pensando ad altro. L’incontro è grazia, ma, perché diventi familiarità che sostiene la vita, urgente sarà quella lealtà con l’umanità che è attesa.

Quarto Intervento

A questo volevo legarmi. Era impensabile per me che il dimezzamento del lavoro e dello stipendio mi potesse fare approfondire l’incontro fatto ben 40 anni fa, a novembre del ’73. E’ una cosa incredibile perché veramente ha fatto saltare tutte le teorie, i discorsi, che io, spesso e volentieri, cerco di infilare lo stesso, ma Lui è come se facesse sempre saltare tutto. L’esemplificazione che volevo raccontare in questo senso è proprio quello che è accaduto la scorsa settimana che si è conclusa ieri per me. Quella del “Dona Cibo” l’ho sempre presa come una grande occasione, ma quest’anno, anche perché lavoro non più di tre ore e mezzo al giorno e ho molto tempo libero, me la sono “accollata” pesantemente: cinque istituti in sei giorni, tremila studenti incontrati. Se ci fate caso, è una cosa apparentemente faraonica, ma di una semplicità e di una accoglienza incredibili. Di questo volevo raccontarvi cosa è accaduto perché è ai fatti che dobbiamo guardare.

<<Cos’è la felicità? Io potrei mai essere felice? Lei perché lo è tanto, perché ha questo volto?>>. A questa domanda, fatta da uno studente dell’ITIS di Belpasso, Roberto – che ha condiviso con me l’iniziativa - ed io abbiamo subito un grande contraccolpo. Subito abbiamo avvertito nel grido di quel giovane la presenza del Mistero che, ancora una volta, ci richiamava. Attraverso quello sguardo, anche se per poco, ho fatto l’esperienza di Andrea e Giovanni quando hanno incontrato Gesù. Chi è costui che mi conosce così bene? Eravamo nell’aula magna con 300/400 studenti difficili da tenere tranquilli anche per gli insegnati, ma si è fatto silenzio. Dopo un momento ho cominciato a parlare al ragazzo, dicendogli anche il problema del lavoro, tutto. Dicendogli che la sera non posso fare andare il riscaldamento, insomma tutto, mi apro tutto. A quel punto gli dico quello che mi è accaduto, a 17 anni, quasi 40 anni fa, a scuola, dialogando con un supplente. Gli ho detto che da quella percezione di compimento del mio desiderio di felicità, che ebbi allora, deriva il volto che ho. Non è merito mio. Non è un’analisi, non sono l’esperto della povertà. Ma è stato l’indomani, sempre nella stessa scuola, davanti a 400/500 ragazzi – poi ne ho perso il numero – che tutto mi è sembrato più evidente perché è una cosa che si sviluppa: tu vedi lì le cose che ti accadono davanti e fai quasi fatica a comprenderle; per questo l’esigenza di scriverle. Quasi alla fine dell’incontro un insegnante di filosofia prende il microfono e dice:<<Senta, qua vengono tanti a chiedere solidarietà per i poveri, chiedono soldi, spesa, vestiti. La stessa iniziativa che lei ha presentano mi è sembrata dello stesso tenore. Però quando ha approfondito le ragioni per cui lei fa il Banco di Solidarietà dentro di me è accaduto qualcosa: ho percepito che lei stava parlando a me, che lei è qui non solo per la spesa, è qui per rimettere in discussione anche il mio modo di insegnare, di guardare i miei studenti, per ricordarmi che io, come tutti, sono fatta per l’infinito – prima  ne avevo parlato -  e niente mi può bastare se non chi ha messo dentro di me questo desiderio>>. Siamo rimasti ammutoliti sia io che Roberto. Non potevo immaginare, neanche un minuto prima, che l’Opera tenera del Mistero, che fa tutte le cose, potesse arrivare ad usare le mie povere parole fino a questo punto. Ho avvertito chiaro su di me l’iniziativa di Uno che mi chiede di convertire il cuore e di non dare mai nulla di scontato anche tra di noi, nella SdC, nella Fraternità ecc. La cosa che mi è rimasta dentro è che quello che è accaduto, non per nostra bravura, è accaduto per noi, per me, per Roberto, per i miei amici con cui condivido il gesto, per un abbraccio che non finisce mai di stupirci. Solo per questo è riaccaduto.

Don Giuseppe

Primo. Anche Carron sta dicendo che occorre riconoscere i nostri limiti, riconoscere nella realtà il punto in cui siamo e farne motivo di un cammino. Ma questo avviene sempre dentro un atteggiamento che don Giussani chiamava di problematicità vera. Qual è la problematicità falsa? Il sospetto, il dubbio, lo scetticismo: ce la farò, non ce la farò, è un inganno, magari mi vogliono fregare? Invece la problematicità vera è la domanda, è la curiosità, è l’interesse, l’andare a vedere, andare a capire.

Qualsiasi cosa accada – e può accadere il mio limite, può accadere il mio peccato, può accadere la rinuncia di un Papa o la vittoria di Grillo – bisogna interrogarsi. Il punto di cammino è l’atteggiamento di problematicità: non il dubbio, perché il dubbio è sempre l’alibi di un disimpegno – chissà se mi vogliono fregare e faccio un passo indietro -, mentre la domanda è un passo avanti – tu chi sei, che significa questo fatto? Faccio un passo avanti -. Quindi lasciarsi interessare, lasciarsi interrogare, non dare nulla per scontato: questo è l’atteggiamento problematico vero. Io sono un bisogno di capire e non  mi acquieto, se non arrivo a fondo, finché non ho capito perché mi è accaduto questo, cosa significa, cosa mi vuole dire. Interrogandosi e interrogandosi andremo in Paradiso.

Secondo. L’altro ieri è venuto a Catania il nostro amico Cesare Pozzoli e ci raccontava di una testimonianza resa sul tema dell’educazione insieme a don Nembrini. Questi raccontava di una catechesi fatta ai bambini della quinta elementare: <<Bene, bambini, Dio ci ama?>>, <<Certo che ci ama>>. <<Quali sono i segni del Suo amore?>>. <<Il cielo, le stelle>>. <<Giusto, ma questo ve l’hanno detto le suore. Altro>>. E qui chi diceva una cosa, chi un’altra, finché un bambino ha alzata una mano e ha detto: <<Il più grande segno che Dio mi ama è che mi ama mia mamma>>. <<Già! Questo è importante: l’amore che ricevi è segno che Dio ti ama. Bene, bambini, ce ne possiamo andare>>. Un bambino dal fondo: <No! Secondo me questo è sbagliato>>. <<Perché è sbagliato?>>. <<Perché a me è morta la mamma due anni fa. Se questo fosse vero, io sarei privato dell’amore di Dio>>. Don Nembrini ha vacillato un po’: <<Ha ragione! Torniamo in classe. Dobbiamo trovare un segno vero dell’amore di Dio>>. <<La fraternità, la compagnia…>>. <<Bellissimo! E se fossi solo?>>. Finché un bambino ha detto: <<Forse il più grande segno dell’amore di Dio, che Dio ci ama, è che io ci sono>>. Problemi, casini, ma ci sono! Allora possiamo poggiare tutta la nostra attesa su una esperienza che mi testimonia la bontà dell’esserci, su una esperienza che mi dice <<è bene che tu ci sia>>. Posso prendere pure schiaffi, posso essere turbato, perché l’ideale cristiano non è l’imperturbabilità – quello è il buddismo -, però mai vinti, mai sconfitti.

Quinto Intervento

In qualche modo hai già risposto, anche gli amici che mi hanno preceduto hanno risposto, ma siccome sono stato in piedi ad aspettare…

Don Giuseppe

E’ giusto: dobbiamo farlo parlare, dare un senso al suo stare in piedi. Hai tutta la mia ammirazione. Però devi trovare qualcosa che susciti il loro interesse, dato che hanno già sentito gli altri.

Quinto intervento

Infatti. Confesso che da qualche tempo io ho un idolo al quale sacrifico tutto dalla mattina fino a sera, quando vado a coricarmi: tutta l’attenzione, la moglie, i figli, gli amici, i colleghi, il lavoro. Sul lavoro c’è una situazione delicata che mi impone di prendere una decisione tra non molto. La questione mi preme tanto che le dedico tutto. Tu dicevi dell’affetto che ci tiene in piedi: questa mi tiene in piedi. Io la confesso perché la decisione del Papa, come Carron l’ha sottolineata, mi ha scosso non poco. Nei miei scenari più disastrosi che immagino, dopo la decisione, io sarò sul lastrico insieme a tutta la mia famiglia e il destino di mezzo mondo. Il fatto che il Papa abbia preso questa decisione, lui che ha una famiglia non meno grande della mia, mi ha fatto desiderare di essere come lui, così libero.

Don Giuseppe

Cioè?

Quinto Intervento

Il destino non è in mano sua.

Don Giuseppe

Nella Bibbia ci sono due modi per svelare l’idolo nella sua menzogna. Il primo modo è detto così: <<Perché spendete denaro per un pane che non sazia?>>. Per un cibo che non sfama? Cioè: quando io metto a contatto ciò per cui vivo, il mio Signore, con la fame vera della mia vita, mi accorgo di ciò che, non dico che colma, ma che le corrisponde, anche se non l’ho ancora. E’ chiaro che corrisponde un’altra cosa. Per cui il problema è: non spendiamo energia a togliere gli idoli, siamo leali nel riconoscere la nostra fame. Perché questo è facile: questo dipende da me, ora. Mentre, come quelli che si sforzano di peccare il meno possibile, non ce la facciamo, dobbiamo accogliere il nuovo che viene. Un altro modo che mi viene in mente è quando Dio dice: <<Non dovete seguire i profeti che parlano e dicono parole non mie>>. <<Ma come facciamo a riconoscere i profeti che dicono parole non tue?>>. <<Semplice! Se  un profeta dice una parola e non si realizza, non è la mia>>. L’idolo fa una promessa che non può mantenere. Conquista il mondo, ti dà tanti soldi, ma non può realizzare quella promessa di bene che ti aveva suggerito. Quindi è un percorso di lealtà: essere me stesso, non mi devo preoccupare. Forse l’idolo è normale: per camminare abbiamo bisogno di identificare un punto il cui raggiungimento susciti speranza. E’ inevitabile il cammino, è un bisogno di purificazione. Però la purificazione non va fatta con malizia, ma essendo originali, essendo veri. Se tu sei vero con te stesso, se tu ami amici che, ogni tanto, ti sappiano dire “che vale conquistare il mondo se poi perdi te stesso”, puoi essere sicuro che è un buon cammino. Dobbiamo amare ciò e chi ci contesta, non cercare la complicità di chi è sempre d’accordo con noi. Dobbiamo andare a cercare, scovare sotto terra uno che ci possa dire “che stai facendo, perché?” Allora, ogni tanto, fermati e dici “perché, per chi sto facendo quello che sto facendo?”

Sesto Intervento

Volevo raccontarvi ciò che mi è successo stamattina. Ero arrabbiato perché, per colpa mia, siamo partiti tardi da Messina, il GPS non funzionava e mi sono arrabbiato perché saremmo arrivati tardi anche alle prove del coro…

Don Giuseppe

Eri arrabbiato tu o con gli altri?

Sesto Intervento

No, ero arrabbiato con me stesso. Quando non riesco a fare le cose per bene mi arrabbio. E ancora di più perché la colpa era mia. Comunque siamo arrivati, ma alle prove ero distratto, pensavo ad altro, a quello che dovevo fare dopo, ero in altre faccende affaccendato, come direbbe qualcuno. Ciò che mi ha colpito è che a poco a poco sono stato afferrato da quello che tu dicevi. Man mano che parlavi emergeva tutto il bisogno che sono, ti poter guardare la mia fragilità come dicevi tu, di poter guardare il fenomeno Grillo come dicevi tu, di poter guardare alla Quaresima come dicevi tu. Sentivo sempre più forte il bisogno di guardare le cose come me le stavi testimoniando tu. Per cui ho fatto esperienza di una pienezza mentre tu parlavi; e di una gratitudine, che è il motivo per cui sono qui stamattina. Perché stamattina è come se avessi avuto un’altra manata di colla aggiunta a quello che ho già incontrato. Però vedo che ho proprio bisogno che questa cosa mi accada continuamente. Che questa esperienza non sia qualcosa accaduta dieci anni fa, ma che possa riconoscerlo presente ora attraverso la tua presenza. Mi veniva in mente una domanda che un ragazzo poneva ieri pomeriggio. Lui diceva: <<Perché vale la pena di essere schiavo di Cristo per non essere schiavo di tutto il resto?>>. Si parlava delle circostanze, degli idoli da cui possiamo dipendere. E lui diceva: <<Dove sta il guadagno a dipendere da Cristo e non da tutto il resto, se comunque devo dipendere da qualcosa o da qualcuno?>>. Ripensavo a questa domanda poco fa e mi veniva da dire che la convenienza sta nell’esperienza di libertà e letizia che io faccio solo quando riconosco Lui che mi accade, che mi sorprende e mi afferra come è stato poco fa.

Don Giuseppe

C’era un padre della Chiesa, padre Cirillo di Gerusalemme, che inizia la sua catechesi in un modo bellissimo. Dice: <<Io non so perché siete venuti qui. Probabilmente molti di voi non sono venuti con l’intento e l’animo giusto, forse qualcuno di voi è venuto per cercare qualche ragazza [siamo nel ‘300/’400 dopo Cristo], oppure per curiosità [siccome le catechesi erano segrete, riservate solo ai battezzati, alcuni erano spie]. Non mi importa perché sei venuto, mi interessa che tu ora ci stai: lasciati prendere all’amo>>. Questa è una cosa che mi ripeto sempre: non mi importa perché sei venuto, ma adesso lasciati prendere. Questo riaccade ogni giorno: per lasciarti prendere è inutile fare sforzi, bisogna stare attenti a ciò che accade, perché solo Cristo mi può prendere. Solo una eccezionalità mi può prendere. Allora la fede è facile, se c’è una eccezionale presenza che davanti mi accade. E in questi mesi, in queste settimane, è accaduto tanto di eccezionale: lasciamoci prendere. Tutto il percorso della SdC ti dice: è accaduto qualcosa di eccezionale? Ti sei lasciato prendere? Continua! Torna, ritorna. Conversa, convivi con questa eccezionalità, facendone la ragione di un dialogo senza sosta che abbia come materia il vivere.

Settimo Intervento

Tu hai detto poco fa che <<il dubbio è un  passo indietro e la domanda un passo avanti>>.

Don Giuseppe

Intanto, pedagogicamente, in quelle equipe del CLU, che io ho frequentato da 20 anni in su, don Giussani spesso diceva: <<Voi siete giovani ed evidentemente avete tante domande e qualche dubbio. L’azione più importante è trasformare i dubbi in domande>>. Sono più importanti le domande: trasformare i dubbi in domande. Sembrerebbe un’operazione intellettuale, in realtà è un’operazione di ragione. Il dubbio: è una favola? La domanda: voglio verificarlo. Ma anche nei rapporti: se io ho un dubbio, che la persona con cui vivo mi nasconde qualcosa, è inevitabile che io prenda le distanze. Vale per le persone con cui lavoro e così via. La domanda è: voglio capire chi sei. E mi devo avvicinare. Poco fa, in un intervento, si diceva: <<C’è un fatto che non capisco>>. Il dubbio potrebbe essere: c’è un’obiezione, che Cristo non vince. La domanda, invece, potrebbe essere: vediamo come Cristo vince. Lo stesso fatto può diventare motivo di un disimpegno scettico o motivo di una domanda aperta e impegnata.

Settimo Intervento

Infatti mi capita che alla stessa domanda, a volte, risponda con un dubbio, a volte, con una domanda. Perché mi devo complicare la vita? Volevo raccontare due fatti. Tante volte sono andato a raccontare a dei politici quello che facevamo. Per la prima volta, un mese fa, qualcuno mi ha risposto: <<Noi vi mettiamo a disposizione un magazzino per il Banco di Solidarietà. Si trova a Giardino [che è un quartiere di Siracusa]>>. Siccome in quel momento io non ne avevo bisogno, gli ho detto: <<Ma questo mi complica la vita. Ti ringrazio, ma non ci serve>>. Mi hanno pregato perché lo prendessi. Ho detto di si e mi sono detto “vediamo che cosa succede”. Siamo andati a firmare il comodato d’uso: li ho visti tutti contenti, l’assessore, il dirigente, uno che lavorava in ufficio e altri. Tutti contenti. E mi hanno detto: <<Ora cosa possiamo fare?>>. <<L’inaugurazione>>. <<Tagliamo il nastro?>>. <<No, un momento>>. <<Allora facciamo un incontro pubblico nella sala consiliare di Melilli, in cui ci andiamo a raccontare>>. Guardate che cosa è successo da una cosa che io non volevo nemmeno accettare. Ora il magazzino c’è, ma poi ci aiuterà Lui a riempirlo: vedremo come fare.

L’altro fatto è che ci è stata fatta la proposta di regalare o vendere Tracce alle famiglie che noi assistiamo. Al che io ho contato le famiglie: sono 90, ho moltiplicato. Tutti questi soldi dove li prendiamo? L’alternativa era dire, come tante volte ho fatto, che me l’hanno proposto, ma non è cosa che mi può interessare. Invece ho telefonato: <<Mi servono 90 copie di Tracce>>. Poi vedremo come pagarle. Questo, secondo me, esemplifica il passaggio dal noi all’io. Poi ho letto cosa ha detto il Papa per la Quaresima: <<Qual è la prima carità? L’evangelizzazione>>. Se noi non riusciamo a portare alle nostre famiglie quello che siamo, almeno affidiamolo a Tracce. Non so se lo sapranno leggere, però, quanto meno, potranno sfogliarlo e un Altro farà il Suo dovere.

Don Giuseppe

Le domande emerse sono importanti e vanno riprese. Anche quella di poco fa: <<Se devo dipendere da qualcuno, perché proprio da Cristo? Che dipendenza è quella da Cristo?>>. E quest’altra: <<Ci stiamo complicando la vita oppure no?>>. Se non rispondiamo a queste domande, l’appartenenza sarà sempre più svuotata, perché l’appartenenza a Cristo si giustifica solo per la sua pertinenza alle esigenze della vita. Posso appartenere solo a Uno che mi spiega la vita, che me la esalta, che me la riempie. <<Non mi basta stasera un amor… Tu solo puoi>>. Allora non dobbiamo avere paura di queste domande. Il problema è impegnarsi nella verità di una risposta. L’appartenenza a Cristo può essere giustificata solo dalla Sua capacità di rispondere alle domande della vita, di verità e di senso. Questo riaccade continuamente attraverso i fatti che ci destano dal torpore, che ci fanno alzare la testa. E’ come abbiamo letto prima di don Giussani: <<Cristo ritorna sempre a mostrare ciò che è: la vittoria sul male>>. Don Carron ha concluso la Responsabili di qualche giorno fa con una immagine: pensate a quelle porte di Castel Gandolfo che si chiudono. Che cosa ha vinto su tutto? La faccia lieta di Benedetto XVI. Quella è la nostra vittoria. Per cui anche a quel ragazzo che chiede “cos’è la felicità” noi possiamo dire: l’abbiamo vista.

Omelia

[Il figliol prodigo]

Questa è la domenica di Quaresima che la Chiese dedica alla gioia. E’ un invito alla gioia. Ma la gioia deve avere delle ragioni, la festa deve avere delle ragioni. Anzi uno dei segni di corruzione, in fondo, dell’umano è questa propensione a far festa senza ragioni adeguate. Oppure con ragioni che non vivono la gioia. Solo la festa vera è l’espressione di una gioia.

C’è una ricerca di novità anche in questo giovane. A un certo punto decide di andare via e chiede a suo padre di dividere le sostanze che, fino a quel momento, in quella casa, erano in comune. E va a sperperare i beni avuti lontano dal padre e dalla sua casa. Solo che, lontano da padre, i beni avuti da lui diventano nulla, diventano incapaci, tutta la vita diventa incapace di soddisfare i bisogni del cuore, diventano meno delle carrube per i porci. Non si può vivere il dono del padre lontano da lui. Lontano dal padre tutto svanisce, tutto si perde, tutto si dissolve. Rientra in se stesso, giudica la sua situazione, fa memoria del padre e decide: si alzò e tornò da suo padre, il quale, da lontano, ne ebbe compassione. Per compassiona l’aveva lasciato andare e l’aveva atteso. Tutti i giorni aveva guardato lungo la strada per la quale lo aveva visto andare via. Una compassione che non impedisce al figlio di fare il suo tentativo. Lo attende ogni giorno, pronto a riabbracciarlo. Gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Adesso c’è motivo di fare festa perché lo ha riavuto, ha riavuto il figlio. Soprattutto il figlio ha riavuto il padre. Quel figlio, che aveva ricevuto baci da un numero sterminato di prostitute, con le quali aveva dissipato il patrimonio, ora riceve l’unico bacio che conta. Era stato baciato infinite volte, ma mai, come questa volta, da suo padre. La festa è che il figlio è tornato e ha riavuto un padre, ha avuto un bacio che vale la vita. L’indignazione del figlio maggiore ripropone, in fondo, lo stesso problema. Sembra che ad entrambi non basti il padre. Il figlio minore vuole qualcosa d’altro oltre il padre e va a verificare, ma è il figlio maggiore che lo dice in modo più chiaro: <<Io ti sono stato sempre accanto e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa>>. E qui veramente il padre si addolora: <<Ma tu sei sempre stato con me. Questo non ti basta? Non è ragione sufficiente per gioire?>>. Abbiamo bisogno, oltre che di Dio, di altro? Abbiamo bisogno di altro per soddisfare la nostra fame? Abbiamo bisogno di altro su cui poggiare la nostra vita? Come se Dio oggi ci dicesse: <<Io ti amo! Questo non ti basta?>>.

 

APPUNTI NON CORRETTI E NON RIVISTI DAGLI AUTORI


 


 

COMUNICATO STAMPA                                           

Julián Carrón: «L’incredibile libertà di un uomo afferrato da Cristo»

 

11/02/2013 - Le parole di don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, in relazione all’annuncio della rinuncia al ministero petrino da parte di Benedetto XVI

«Con questo gesto, tanto imponente quanto imprevisto, il Papa ci testimonia una tale pienezza nel rapporto con Cristo da sorprenderci per una mossa di libertà senza precedenti, che privilegia innanzitutto il bene della Chiesa. Così mostra a tutti di essere totalmente affidato al disegno misterioso di un Altro.
Chi non desidererebbe una simile libertà?
Il gesto del Papa è un richiamo potente a rinunciare a ogni sicurezza umana, confidando esclusivamente nella forza dello Spirito Santo, come se Benedetto XVI ci dicesse con le parole di san Paolo: “Sono persuaso che colui che ha iniziato in voi questa opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù” (Fil 1,6).
Attraverso l’annuncio del Papa, il Signore ci domanda di trapassare ogni apparenza, attraversando tutto l’entusiasmo umano con cui avevamo salutato l’elezione di Benedetto XVI e con cui lo abbiamo seguito in questi otto anni, grati per ogni sua parola.
Desiderando di vivere la stessa esperienza di immedesimazione con Cristo che ha dettato al Papa questo atto storico per la vita della Chiesa e del mondo, accogliamo anche noi con libertà e pieni di stupore questo estremo gesto di paternità, compiuto per amore dei suoi figli, affidando la sua persona alla Madonna affinché continui a esserci padre dando la vita per l’opera di un Altro, cioè per l’edificazione della Chiesa di Dio.
Con tutti i fratelli, insieme a Benedetto XVI, domandiamo allo Spirito di Cristo di assistere la Chiesa nella scelta di un padre che possa guidarla in un momento storico così delicato e decisivo».
 

Milano, 11 febbraio 2013

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La croce di Ratzinger

La lettera del Presidente della Fraternità di CL ("la Repubblica", 15 febbraio 2013)


Julián Carrón

15/02/2013


Caro Direttore,
il suo editoriale sull’annuncio di Benedetto XVI descrive la situazione in cui tutti ci siamo venuti a trovare lunedì mattina. «È una notizia universale, che fa il giro del mondo e lo stupisce. (…) Guai a far finta di niente».
Per un istante il mondo si è fermato. Tutti, dovunque fossimo, abbiamo sostato in silenzio, specchiandoci nei volti altrettanto stupiti di chi avevamo accanto. In quel minuto di silenzio c’era tutto. Nessuna strategia di comunicazione avrebbe potuto provocare un simile contraccolpo: eravamo davanti a un fatto tanto incredibile quanto reale, che si è imposto con una tale evidenza da trascinare tutti, facendoci alzare lo sguardo dalle cose solite.
Che cosa è stato in grado di riempire il mondo intero di silenzio, all’improvviso?
Quel minuto stupefatto ha bruciato d’un colpo tutte le immagini che di solito ci facciamo del cristianesimo: un evento del passato, una organizzazione mondana, un insieme di ruoli, una morale circa le cose da fare o da non fare. No, tutto questo non riesce a dare ragione adeguata di ciò che è accaduto l’11 febbraio. La spiegazione va cercata altrove.
Perciò, davanti al gesto papale mi sono detto: qualcuno si sarà domandato chi è mai Cristo per Joseph Ratzinger, se il legame con Lui lo ha indotto a compiere un atto di libertà così sorprendente, che tutti − credenti e non credenti − hanno riconosciuto come eccezionale e profondamente umano? Evitare questa domanda lascerebbe senza spiegazione l’accaduto e, quel che è peggio, perderemmo ciò che di più prezioso ci testimonia. Esso grida, infatti, quanto è reale nella vita del Papa la persona di Cristo, quanto Cristo deve essergli contemporaneo e potentemente presente per generare un gesto di libertà da tutto e da tutti, una novità inaudita, così impossibile all’uomo. Pieno di stupore, sono allora stato costretto a spostare lo sguardo su ciò che lo rendeva possibile: chi sei Tu, che affascini un uomo fino a renderlo così libero da suscitare anche in noi il desiderio di quella stessa libertà? «Cristo me trae tutto, tanto è bello», esclamava un altro appassionato di Cristo, Jacopone da Todi: non ho trovato altra spiegazione.
Con la sua iniziativa il Papa ha dato una tale testimonianza a Cristo da far trasparire con potenza tutta la Sua attrattiva, a tal punto che essa in qualche modo ci ha afferrati tutti: eravamo davanti a un mistero che catturava l’attenzione. Dobbiamo ammettere quanto sia raro trovare una testimonianza che costringa il mondo, almeno per un istante, a tacere.
Anche se, subito dopo, la distrazione ci stava già trascinando altrove, facendoci scivolare – l’abbiamo visto in tante reazioni − negli inferi delle interpretazioni e dei calcoli di “politica ecclesiastica”, impedendoci di vedere che cosa ci ha realmente avvinto nell’accaduto, nessuno potrà più cancellare da ogni fibra del proprio essere quell’interminabile istante di silenzio.
Non solo la libertà, ma anche la capacità del Papa di leggere il reale, di cogliere i segni dei tempi, grida la presenza di Cristo. Parlando di Zaccheo, il pubblicano salito sul sicomoro per vedere passare Gesù, sant’Agostino dice: «E il Signore guardò proprio Zaccheo. Egli fu guardato e allora vide. Se non fosse stato guardato, non avrebbe visto». Il Papa ci ha mostrato che solo l’esperienza presente di Cristo permette di “vedere”, cioè di usare la ragione con lucidità, fino ad arrivare a un giudizio assolutamente pertinente sul momento storico e a immaginare un gesto come quello che lui ha compiuto: «Ho fatto questo in piena libertà per il bene della Chiesa, dopo aver pregato a lungo ed aver esaminato davanti a Dio la mia coscienza, ben consapevole della gravità di tale atto, ma altrettanto consapevole di non essere più in grado di svolgere il ministero petrino con quella forza che esso richiede». Un realismo inaudito! Ma dove ha origine? «Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura» (Udienza generale del mercoledì, 13 febbraio 2013).
L’ultimo atto di questo pontificato mi appare come l’estremo gesto di un padre che mostra a tutti, dentro e fuori della Chiesa, dove trovare quella certezza che ci renda veramente liberi dalle paure che ci attanagliano. E lo fa con un gesto simbolico, come gli antichi profeti di Israele che, per comunicare al popolo la certezza del ritorno dall’esilio, facevano la cosa più apparentemente assurda: comperare un campo. Anche lui è così certo che Cristo non farà mancare la Sua guida e la Sua cura alla Chiesa che per gridarlo a tutti fa un gesto che a tanti è sembrato assurdo: mettersi da parte per lasciare a Cristo lo spazio di provvedere alla Chiesa una nuova guida con le forze necessarie per assolvere il compito.
Ma questo non riduce il valore del gesto alla sola Chiesa. Attraverso la cura della Chiesa, secondo il Suo misterioso disegno, Cristo pone nel mondo un segno nel quale tutti possono vedere che non sono da soli con la loro impotenza. Così «nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza», che spesso provocano confusione e smarrimento, il Papa offre a ogni uomo una roccia dove ancorare la speranza che non teme le burrasche quotidiane permettendogli di guardare al futuro con fiducia.



 

la Repubblica
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